Federico Geremei, l’Espresso 30/8/2013, 30 agosto 2013
SCOMMESSA PANAMA
È passato mezzo millennio dal giorno in cui il Vecchio Mondo ha scoperto il nuovo oceano. Era il mese di settembre 1513 quando Vasco Núñez de Balboa, spagnolo di Spagna, avventuriero con pochi fronzoli e governatore con ancora meno scrupoli, posava i primi occhi europei sul Pacifico. C’è voluto poi poco perché l’epica cedesse il posto alle ambizioni commerciali di una scorciatoia redditizia tra quei lidi e i porti atlantici. Molto di più, quattro secoli, per vederla realizzata con l’apertura dell’istmo a velieri, piroscafi e così via. Le cose sono cambiate da quel Ferragosto 1914: Panama apparteneva alla Colombia, il canale era a stelle e strisce - lo sarebbe stato per altri ottantacinque anni - ed il sistema mondiale di trasporti via mare seguiva logiche e rotte diverse. “El Canàl” mantiene da allora un monopolio sui generis: non esistono infatti altri passaggi brevi tra i due oceani, nessuna alternativa consolidata per tagliare drasticamente rotte e costi. Ogni anno raccoglie un miliardo e mezzo di dollari di ricavi per 15 mila passaggi (oltre un milione di navi in tutta la sua storia). Eppure non basta: va ampliato. Per questo quattro anni fa si è dato il via ai cantieri, stimando di raddoppiare il flusso di merci in dieci anni dalla fine dei lavori e di coprire buona parte dei costi con un aumento progressivo dei pedaggi per i primi quindici.
Ma forse non basterà: è una questione di dimensioni e di rotte alternative. Iniziamo dalle prime. L’aritmetica dei container non si basa solo su distanze da percorrere e pedaggi da pagare. È sempre meno una faccenda esclusiva di miglia in mare aperto - tempi e carburante - e oboli per diritti di transito e polizze. Nelle equazioni il fattore stazza conta sempre di più, con la costruzione di navi in grado di ospitare carichi sempre maggiori e di consumare, in proporzione, molto meno. A Panama lo sanno bene, gli Stati Uniti se l’erano del resto immaginato con largo anticipo e se n’è discusso negli anni Trenta del secolo scorso. Ma il giovane canale andava bene com’era: altri 60 anni di business come al solito.
Le cose hanno iniziato a cambiare solo con l’istituzione della “Autoridad del Canal de Panama” e il passaggio al governo panamense il 31 dicembre 1999. Nel giro di dieci anni è stato indetto un referendum sull’ampliamento (ottobre 2006), indetta una gara e dato il via ai lavori: chiuse più grandi ed efficienti, dragaggio di passaggi più profondi e altri interventi relativamente minori come un nuovo, più alto ponte sull’Atlantico. Non tutte le grandi navi possono attraversare il canale. La “taglia” massima dipende dalle dimensioni del sistema di chiuse tramite cui vengono portate dal livello del mare a quello del tratto navigabile interno e, completato il viaggio, da questo al livello dell’altro oceano. Da quelle attuali i portacontainer più lunghi di 290 metri restano fuori. Rappresentavano una quota relativamente marginale della flotta cargo mondiale mezzo secolo fa, ma da dieci anni stanno crescendo velocemente e molte stime sui trend futuri indicano ulteriori incrementi. Sono flotte che comprendono, per esempio, tutte le portaerei statunitensi, quasi tutte le supertanker (le petrolierie più grandi al mondo) e buona parte delle navi portacontainer di nuova generazione. Una volta operativo il nuovo canale di Panama avrà spazio per le post-panamax così che sfileranno carichi superiori di tre volte a quelli odierni. Necessario? Sì. Sufficiente? Probabilmente no, già si pensa infatti al post-post-panamax. Così le autorità dichiarano che si procederà con ulteriori sistemi di chiuse una volta ultimati i lavori di ampliamento in corso che però sono in ritardo di sei mesi. Quei pochi che oggi si sbilanciano indicano l’autunno del 2015 come termine “ragionevolmente probabile” del fine lavori. Il grosso del progetto, la costruzione dei nuovi sistemi di chiuse del canale è stato affidato a “Grupo Unidos por el canal” nell’estate del 2009. Il consorzio, formato dall’italiana Impregilo, dagli spagnoli Sacyr Vallehermoso, dai belgi di Jan de Nul e da Constructura Urbana, contractor locale, ha avuto la meglio sui concorrenti (uno guidato da altri spagnoli, uno a capitale franco-brasiliano, uno nippostatunitense) con l’offerta più bassa di tutte (3,2 miliardi di dollari). Una delle commesse più sostanziose se l’è aggiudicata la Cimolai di Pordenone: per 400 milioni sta realizzando le 16 enormi paratie. Le prime quattro hanno già compiuto il viaggio da Trieste a Panama. I conti dei fantastilioni a venire sono roba per investitori, ingegneri, armatori e trader. Un mondo a sé con troppi zeri e qualche incognita per ora, da intuire se si varcano i cancelli dei cantieri e si accede ai conti degli appalti, con un occhio ai trend del trasporto marittimo e agli scenari macroeconomici.
In cambiamento è anche il paesaggio urbano. Nella nuova Panama i turisti si mescolano a residenti e nuovi immigrati in cerca di grandi fortune con piccoli capitali. Il cuore della capitale non è tanto il lungomare come avviene ai Caraibi o nel sud della Francia. La forza di Ciudad de Panama è soprattutto finanziaria e privata, preferisce i pannelli tirati a lucido dei grattacieli alle aiuole pubbliche, alimentando da decenni una versione sui generis dell’oleografia Miami Style.
Negli ultimi due anni l’amministrazione cittadina ed il governo centrale hanno investito molto nel rifare il look alla capitale, con interventi urbanistici di forte impatto. Anche lungo la costa. Questo è il paradiso dei fanatici dello sport all’aria aperta, scomposti nella corsa e grati per i nuovi circenses a portata di mano, gli schiamazzi delle scolaresche, le coppie e famiglie a passeggio. Ma quando il sole lascia spazio al crepuscolo e poi alle luci col buio è lo skyline sullo sfondo ad animarsi. Punta Paitilla, Bella Vista e gli altri barrios del centro iniziano ad accendersi, qualcosa però manca: alla quinta di praterie verticali in vetro e acciaio, splendenti di giorno, non corrisponde una versione notturna al neon, open space illuminati, il pulsare di fari alogeni in ogni edificio. Molti edifici si stagliano spenti, totem emblematici di investimenti immobiliari certi di rendite future ma non sempre immediate. Il mercato real estate, uno dei cardini dell’economia del Paese, è vivace ma cauto, cullato dall’inerzia che ancora garantisce guadagni. Si espande lungo il “Corredor Sud”, tra la città e l’aeroporto internazionale per mano dei nuovi investitori - in buona parte venezuelani (molti di origine italiana) e spagnoli - che hanno più fretta di lasciare il proprio paese e investire sul mattone dell’istmo che di guadagnare immediatamente.
Il centro storico è situato dall’altra parte del lungomare. Abbandonato a se stesso per decenni, è oggi il teatro di una riqualificazione al rallentatore certo, ma incessante che parte dall’alto, dalla bonifica delle facciate, per poi scendere a sistemare selciati, a organizzare spazi seguendo un tetris complesso di interventi seguiti a ruota da iniziative private di ristoratori e arte informale. Il risultato è che mentre alcuni vecchi residenti, spesso abusivi, sono costretti a fare le valige, arrivano le nuove élite metropolitane.
Il paesaggio sta cambiando non solo nel centro cittadino e nella nuova zona commerciale: Curundù, fino a ieri era uno slum a due passi dal centro, è oggi uno dei vanti della presidenza, tra soddisfazione delle autorità e critiche di demagogia dalle opposizioni. Il Biomuseo ideato da Frank Gehry, situato sull’isolotto Amador a un quarto d’ora dal centro, è forse più di ogni altro elemento il volto nuovo di Panama anche se i lavori procedono a singhiozzo. Ultima data di apertura prevista: marzo 2014.
Torniamo al Canale. Raddoppia e ancora non basta. E presto potrebbe temere la concorrenza di altre opere simili per soddisfare soprattutto appetiti e interessi dei nuovi potenti asiatici (Cina in testa) munifici negli investimenti strutturali, come porti e flotte. Tra questi progetti uno potrebbe interessare il vicino Nicaragua con Ortega che ha rispolverato il sogno ottocentesco del canale dall’Atlantico attraverso il fiume San Juan, il lago Nicaragua e il taglio dell’istmo di Rivas (e avrebbe i finanziamenti di una società cinese di Hong Kong, spesa prevista almeno 40 miliardi di dollari). Un “secondo canale di Panama”, insomma, a cui si oppone però la Costa Rica.
Il calendario delle ricorrenze storiche di Panama e dintorni si sovrappone a quello degli appuntamenti elettorali dei vicini centroamericani: si inizia con le presidenziali in Honduras a novembre, sarà poi la volta della Costa Rica e di El Salvador all’inzio del prossimo anno (febbraio e marzo, rispettivamente) per concludere con gli appuntamenti elettorali panamensi a maggio. Urne e container, acciaio e carta si preparano a ridisegnare gli equilibri mesoamericani.
Federico Geremei