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 2013  agosto 29 Giovedì calendario

NAPOLITANO PRESIDENTE O PATRON?


Ci fu un tempo forse qualcuno lo ricorda in cui perfino ogni volta che il presidente della Repubblica, per qualunque ragione, prendeva la parola in pubblico, ciò avveniva sempre alla presenza di un membro del governo. Non era una pura formalità. Stava a sottolineare, quella presenza, l’irresponsabilità politica del capo dello Stato sancita dalla nostra Costituzione (cioè che, come prescrive l’articolo 90, egli «non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione», e che, articolo 89, «nessun atto del presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la responsabilità»). Fino a tal punto la norma costituzionale era sentita come essenziale che si dice che un presidente della Repubblica sia arrivato a sottoporre alla firma del presidente del Consiglio addirittura il testo di un messaggio che egli intendeva rivolgere alle Camere: un atto che evidentemente, invece, rientra tra le sue previste e specifiche funzioni, e di cui, quindi, egli solo ha, e non può non avere, l’esclusiva titolarità, portandone anche la relativa responsabilità.
Come si capisce, questa impalcatura di norme corrisponde a una figura di capo dello Stato che abbia un ruolo puramente notarile. Un ruolo, cioè, nel quale lo stesso si astenga – anche perché la situazione glielo consente – dallo svolgere una parte significativa nella determinazione degli equilibri politici e nelle loro vicende.
Ma oggi non è certo più così. Da alcuni anni, il presidente della Repubblica, infatti, sollecitato soprattutto dalla paralisi del sistema politico, è stato spinto sempre più a divenire il vero «dominus» degli equilibri politici del Paese, il vero «patron» politico dei governi, e di conseguenza a intervenire in modo sempre più continuo ed esplicito, con dichiarazioni talvolta quotidiane, nella discussione pubblica: che si tratti di questo o quel provvedimento da prendere, delle nomine o degli orientamenti generali da adottare. Un ruolo d’intervento politico che ovviamente non può non comportare la possibilità di un disaccordo e perciò di una critica.
Il che significa che a questo punto qualsiasi norma o prassi che invece metta l’operato del capo dello Stato autoritariamente al riparo da qualsivoglia eventuale osservazione e perfino da qualsivoglia eventuale discussione, creerebbe una condizione di privilegio a suo favore – a favore, voglio sottolinearlo, proprio di quella che di fatto è ormai la principale figura della scena politica – ben difficilmente giustificabile da un punto di vista democratico.
Che si siano dimostrati impermeabili a queste considerazioni sia il presidente del Senato, sia quello della Camera – togliendo entrambi la parola a due parlamentari dell’opposizione che intervenendo in aula stavano per riferirsi al ruolo politico del presidente Giorgio Napolitano – non mi sorprende. Privi di retroterra e di caratura politica propria, sia Laura Boldrini sia Pietro Grasso non possono certo azzardare comportamenti minimamente innovatori. Sorprendente invece, è stato il silenzio in merito dell’opinione pubblica e della stampa liberale, che hanno accettato senza fiatare la censura alla libertà di parola decretata nelle aule parlamentari. Solo il presidente Napolitano, dando una lezione di libertà a tutti, ha fatto sapere che all’origine della suddetta censura non c’era stata alcuna sua richiesta. Come dire: nelle forme dovute anche io posso essere criticato.