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 2013  agosto 29 Giovedì calendario

ALESSANDRO PROFUMO


Le banche in Italia contano troppo per le imprese, è ora di iniziare a usarle meno». «Sono e resto europeista, ma i rapporti con Bruxelles hanno messo a dura prova la mia fede». «La sinistra, per governare, deve riscoprire i valori dell’impresa: non ne può avere sempre una visione negativa»... Alessandro Profumo, presidente di quella polveriera che è stata il Monte dei Paschi di Siena, parla a ruota libera. A 56 anni, del resto, le ha fatte e viste tutte. Ha preso il Credito italiano nel ’94, neoprivatizzato, e in 16 anni ne ha fatto la prima banca multinazionale italiana, decuplicandone le dimensioni. È diventato il banchiere più pagato e invidiato di tutti. È stato clamorosamente estromesso, è rimasto due anni in panchina senza strepiti e adesso ha la «mission impossible» non solo di risanare il Monte, insieme con l’amministratore delegato Fabrizio Viola, ma anche di restituire appena possibile allo Stato i 3,9 miliardi di «Monti bond» con cui la banca si è salvata, guadagnandoli (difficile) o trovando nuovi soci che li sborsino.
Profumo, trovati questi soci?
Non abbiamo neanche ancora cominciato a cercarli. Ci sono molte cose da fare, prima.
Ha detto che non vorrebbe banche azioniste. Ma allora chi? Restano solo ipotesi straniere.
Secondo me, la bandiera di un socio non conta nulla, guardiamo Unicredit. È azionista di maggioranza di banche di 20 paesi: della terza banca tedesca, della prima austriaca, della prima in Croazia, della prima in Bulgaria. La missione dell’Unicredit è fare bene la banca in questi paesi. Se cambiasse il modo di fare bene la banca in tutti quei diversi paesi, in relazione con gli assetti proprietari, sarebbe un dramma, sarebbe impossibile. Ecco, questo vale anche al contrario, per una banca italiana controllata da soci stranieri. Alcune grandi banche italiane del tutto controllate dall’estero sanno fare bene banca in Italia.
Vuole far capire che ha già in mente qualcuno?
Assolutamente no, voglio dire che però non ci sono tabù.
Prima dovrà convincere la Commissione europea che il vostro piano di risanamento funziona e che quindi meritate l’aiuto pubblico dei bond da 3,9 miliardi di euro.
Devo dire che i rapporti con la Commissione in questa fase hanno messo a dura prova il mio europeismo. Ma ho superato la crisi. Certo, è importante valutare ogni situazione con grande attenzione alle specificità. E non voglio lamentare che il Montepaschi sia stato maltrattato da Bruxelles, ma certo, quando un’azienda presenta un piano con cui riduce gli organici di oltre il 20 per cento...
Qualcuno vuol dare una lezione all’Italia? Con tutti gli aiuti di stato dati alle banche di altri paesi, viene da chiederselo.
In passato l’Associazione bancaria italiana assunse posizioni molto polemiche su Basilea (le regole internazionali di vigilanza, ndr), e forse ora le stiamo pagando.
Una specie di vendetta trasversale?
No, non la seguo su questo terreno. Credo che per il sistema bancario italiano sia più conveniente, sia pur con sacrifici, andare verso una forte integrazione europea che restare molto nazionale. E aggiungo che per fortuna abbiamo l’autorità nazionale di controllo, la Banca d’Italia, più puntuta che ci sia in Europa (vedere anche l’articolo a pagina 23, ndr). Quindi altro è rilevare la grande severità con cui ci tratta Bruxelles, altro è pretendere di sottrarsi. Non torniamo indietro, guardiamo avanti.
Ma a cosa ci serve un’Europa così?
Se parliamo di banche, ci serve eccome. Per l’Europa in generale e per l’Italia in particolare un mercato unico del credito è essenziale.
Perché per l’Italia in particolare?
Perché le banche italiane hanno molti più impieghi che depositi, quindi soffrono di un «funding gap», cioè di un dislivello tra denaro che prestano e denaro che raccolgono. Devono colmare questo dislivello raccogliendo la differenza sul mercato internazionale, in particolare europeo.
Dove poi salta su la European banking authority (Eba) a distribuire test sulla solidità delle banche che i fatti smentiscono dopo poche settimane.
L’Eba è un organismo nominato dai regolatori nazionali, può aver fatto qualche errore di rodaggio ma personalmente continuo a credere che questo o altri problemi di crescita non devono fermare il processo di integrazione europea. Perciò è fondamentale che si dia la supervisione unica sul sistema creditizio europeo alla Banca centrale europea. Creiamo un supervisore unico, equilibrato, che guardi le diverse specificità: secondo me il passaggio alla Bce è fondamentale, perché avremo al vertice del sistema un soggetto super partes.
Finora troppo super partes le istituzioni europee non hanno saputo essere. O le è piaciuto il trattamento riservato alla Grecia?
L’Europa in sé è un fatto talmente positivo da essere una strada, anzi una dimensione, obbligata. Credo, però, che debba sicuramente evolvere, cambiare, debba tornare a essere un motore dello sviluppo. Certo, la gestione della crisi greca fa venire forti dubbi sul fatto che quella politica sia stata giusta. Insomma, da una parte si deve andare avanti nel processo di unificazione, e dall’altra ricondurre l’Unione a essere meno burocratica e più politica.
Spieghi meglio la faccenda del gap tra raccolta e impieghi: vuol dire che le banche italiane prestano soldi che non hanno?
Sì, la sostanza è che prestano più soldi di quanti ne raccolgono, quindi il problema c’è, è nostro in particolare ma europeo in genere: a lungo termine lo squilibrio tra raccolta e impieghi rischia di diventare insostenibile, bisogna imitare il mondo anglosassone e portare più aziende a finanziarsi direttamente sul mercato del debito, cioè non con i prestiti bancari.
E dove? In borsa?
Anche, o comunque su altri mercati del denaro, dove le banche siano semplici intermediarie ma non prestatrici dirette.
Che c’è, Profumo, si sente un banchiere pentito?
Ci mancherebbe altro, dico semplicemente che le imprese devono essere meno bancodipendenti e che le banche devono saper fare anche gli altri loro mestieri.
Comunque, lo sbilancio tra raccolta e impieghi sembra una ragione in più per temere che le nostre banche siano malate.
Non lo è nel breve-medio termine. Però, in genere, se l’economia di un paese va male è difficile che le banche di quel paese vadano benissimo. Dopo di che le nostre banche sarebbero più solide di molte altre, se non avessero il loro vizio d’origine.
Quale?
Che hanno nel loro portafoglio titoli di Stato italiani, quindi sono esposte a tutte le fluttuazioni del rischio paese. Inoltre, contrariamente alla crisi della fine degli anni Novanta, in cui soffrivano soprattutto le grandi imprese, questa volta stanno soffrendo anche e soprattutto quelle medio-piccole, meno aperte ai mercati internazionali, che sono molto indebitate, il che pesa sui conti bancari.
In compenso le nostre banche sono meno esposte sui derivati finanziari, dovrebbero giovarsene.
Infatti il paradosso è questo: il sistema creditizio italiano ha attivi composti essenzialmente da crediti commerciali, ha una leva finanziaria bassa, ma essendo molto esposto sui Btp patisce questa grande rischiosità del Paese, che lo danneggia.
Ma insomma il sistema bancario è solido o dovremo aspettarci nuove batoste?
Le banche italiane sono solide, ma devono migliorare la qualità di questa solidità. Non la si può semplificare ulteriormente, la situazione è questa.
E devono trovare nuovi padroni: voi al Monte sicuramente, ma un po’ tutte, dopo la fine dell’era dei patti di sindacato e delle fondazioni.
Sì, in generale c’è il problema di capire come si struttureranno gli assetti proprietari delle banche, e credo anche di molte altre imprese. Io però penso: forse finalmente siamo obbligati a diventare adulti. Quante alternative vere sono state trovate finora? Nessuna. Quindi bisogna imparare a nuotare, poi quando hai imparato è bello.
In quali acque nuoterà il Monte? Entriamo nel dettaglio.
La nostra logica è semplice: questa banca è abbastanza grande da stare in piedi con le sue gambe, il problema è riuscire a trovare nuovi azionisti che sottoscrivano l’aumento di capitale quando servirà. E non sarà necessariamente una ricerca facile o semplice. Ma è un passaggio obbligato. A me, in teoria, piacerebbe trovare azionisti che non fossero altre banche, per restare davvero autonomi, poco importa se italiani o stranieri, altrimenti... prenderemo quello che arriverà.
Alla fondazione e al sindaco di Siena è stata attribuita l’intenzione di ridimensionare drasticamente il Monte, facendogli vendere tutta la rete esterna alla provincia, per tenersi il controllo della banca.
So che a Siena c’è questa idea, a me pare poco sensata. A Siena c’è la testa di tutta la banca, proporzionata a un corpo molto grande. Se ridimensiono drasticamente questo corpo, devo ridimensionare in proporzione anche la testa, il che rischia di diventare un esercizio molto spiacevole. Poi ognuno può dire e fare quel che vuole.
Certo che anche le banche e i banchieri italiani ne hanno fatte, di cose poco sensate. Hanno distribuito denaro indiscriminatamente, un po’ tutti. E si lamentano delle regole prudenziali internazionali stabilite a Basilea.
Io apprezzo le regole di Basilea: ci dicono che bisogna commisurare il capitale all’effettiva rischiosità dei clienti e ci invitano a costruire dei modelli di valutazione del rischio che l’autorità di controllo deve asseverare, modelli che non guardano solo alle garanzie reali ma a tanti altri fattori.
È con queste regole che le banche italiane, Unicredit compresa, hanno dato tanti soldi, per esempio, a Salvatore Ligresti?
Provocazione respinta. Dico che nell’erogazione del credito errori ne sono sempre stati commessi e sempre se ne faranno: i giudizi ex post sono un po’ facili. Detto questo, va superato lo schema dell’errore-dipendente. Io ne ho fatti certamente molti, di errori, ma sempre al 1.000 per mille indipendenti. Sbagliando in proprio, con la mia testa, non per accontentare qualche potere esterno.
C’è chi l’accusa di essere stato l’estremo difensore del salotto buono della Mediobanca, traghettandovi Cesare Geronzi alla presidenza.
Penso che Geronzi sarebbe comunque arrivato in Mediobanca. E quanto a me, sul fronte dei salotti buoni non ho niente di cui scusarmi con nessuno: ho sempre voluto starne fuori, uscii volontariamente nel 2005 dal consiglio d’amministrazione della Mediobanca e non vi sono più entrato. Penso che il concetto stesso di salotto buono sia superato, e da molti anni. Abbiamo bisogno di un mercato che funzioni, non di un salotto lobbistico.
Sarà, ma per esempio i francesi sono riusciti a creare due poli del lusso che stanno fagocitando le nostre imprese.
In questo caso il problema non va cercato sul fronte bancario più che su altri. È vero, in Italia ci sono poche imprese aggreganti. Abbiamo forse avuto imprenditori troppo individualisti? Forse. C’è anche sempre stata, da noi, una cultura antagonista della grande impresa. Colpa anche della politica e dei media. Ci sono molte responsabilità e molti ragionamenti da fare. Ricominciamo a dire che abbiamo un problema di dimensione d’impresa, qui in Italia, e che non necessariamente solo piccolo è bello. Ma sono ottimista.
Perché?
Questa crisi è un catalizzatore di cambiamento. Molti imprenditori si rendono conto che non ce la fanno più, che devono cambiare atteggiamento, strategie. E lo faranno.
Lei è notoriamente un elettore di sinistra, non le viene difficile lamentare che ci sia in Italia una cultura avversa alla grande impresa?
No, perché proprio da elettore di sinistra mi auguro che la sinistra torni a capire che l’impresa crea benessere, quindi non va avversata ma aiutata, entro le regole.
In che senso «torni a capire»? Quando mai l’ha capito?
Negli anni Sessanta a sinistra questa cultura c’era, negli anni del boom c’era molto più di oggi. C’era l’amore per l’industria e per la creazione di valore. Negli anni Sessanta c’era un Attilio Bertolucci che dirigeva Il Gatto selvatico dell’Eni, l’house organ voluto da Enrico Mattei; Leonardo Sinisgalli che dirigeva una rivista dal titolo Civiltà delle macchine. C’era più cultura d’impresa. Anche in persone che certo non provenivano dalle file liberali.
E poi che è successo?
Abbiamo preso in tanti una deriva negazionista, ideologica. Alcune imprese hanno fatto anche delle cose sbagliate, il sindacato ha a sua volta radicalizzato le posizioni.
Basterebbe Matteo Renzi a cambiare i toni?
Renzi mi sembra un leader interessante ma secondo me il problema non è lui o un qualsiasi altro leader, il problema è che dovrebbe ripristinarsi una cultura diffusa, una pluralità di soggetti che vedano l’impresa come un fattore positivo per la società. Poi, certo, l’impresa bisogna farla bene, sostenibile. Ma non se ne può più avere solo una visione negativa.