Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  agosto 29 Giovedì calendario

KEY CRIME


Farmacia in viale Monte Rosa, semicentro di Milano, ore 12: all’interno tre anziani in coda al banco, fuori due uomini si aggirano sospetti. Indossano giubbotti larghi non adatti alla temperatura mite. Uno è basso, grasso, con lunghi riccioli neri; l’altro alto e muscoloso, non si rade da qualche giorno. Poco prima della chiusura della farmacia un uomo si avvicina, si guarda intorno e fa per entrare. In un attimo i due col giubbotto lo raggiungono e lo ammanettano. Sono agenti dei «falchi» della squadra mobile milanese. In carcere finisce Amedeo B., 35 anni. In tasca aveva una pistola giocattolo e al suo attivo diversi colpi nelle farmacie della città.
I poliziotti non conoscevano il suo nome, ma avevano raccolto così tante informazioni su di lui che sapevano esattamente dove, con quale arma, in che giorno e a che ora avrebbe messo a segno la sua prossima rapina. Una predizione del crimine, cui Panorama ha assistito in diretta, e che ormai nel capoluogo lombardo è prassi. Grazie a un software, un programma informatico chiamato Key crime, che analizza migliaia di informazioni su alcuni tipi di reati e ne predice il futuro. Permettendo agli agenti di anticipare il sospetto sul luogo della rapina e di arrestarlo in flagranza di reato.

È la nuova frontiera nella lotta alla criminalità, la cosiddetta «predictive policing». Negli Stati Uniti l’Fbi analizza con interesse esperimenti analoghi adottati da alcune polizie locali, come quella di Santa Cruz, in California. Dove l’analisi al computer dei reati commessi permette di inviare le pattuglie nelle strade e negli orari più a rischio. Oltreoceano l’impiego dell’informatica per contrastare il crimine risale al 1995, quando a New York il sindaco Rudolph Giuliani fece adottare dal New York police department il Compstat, un programma che studiava le statistiche dei reati per organizzare la risposta delle forze dell’ordine. Oggi alcune università americane collaborano con vari dipartimenti di polizia per creare algoritmi che supportino il lavoro degli agenti nella loro attività, riassunta nel motto «to protect and to serve», a cui in futuro sarà aggiunto, forse, «to predict». Il settimanale Time, nel novembre 2011, ha inserito il software di predictive policing di Santa Cruz fra le 50 invenzioni più importanti dell’anno.
Ma la polizia italiana, almeno su questo fronte, è avanti di anni. Perché, invece di analizzare solo i dati storia (i reati), si concentra sull’autore. Che, se si tratta di un rapinatore seriale, certamente ripeterà le sue azioni. Una volta individuato il rapinatore, anche senza conoscerne i dati anagrafici, il Key crime studia i suoi comportamenti e prevede le sue azioni. Un futuro alla Philip K. Dick che Steven Spielberg ha raccontato nel film Minority report? Non proprio, più semplicemente l’uso della tecnologia applicato al lavoro dello sbirro che, nella sua sostanza, è invariato da sempre.
Agatha Christie nel 1936 scriveva: «Ogni reato rivela molte cose. I nostri metodi, i nostri gusti, le nostre abitudini sono svelati dalle nostre azioni». È proprio così: ogni evento criminoso rivela, a chi le sa cogliere, moltissime informazioni. Gli uomini della questura di Milano hanno da tempo messo a punto un esclusivo protocollo dove, per ogni rapina, vengono inseriti circa 20 mila dati. Basti pensare che da soli 3 secondi di filmato di una telecamera di sorveglianza possono essere ricavati 60 indizi. Dati storici, testimonianze, analisi dei filmati a circuito chiuso permettono di ricostruire, per esempio, l’altezza, il colore degli indumenti, l’andatura, quale mano impugna l’arma, l’accento del rapinatore e persino il suo odore.
Nel 2007, quando è iniziata la sperimentazione del Key crime, la questura di Milano risolveva circa il 27 per cento dei casi di rapina. L’anno seguente, grazie anche al software, i successi passarono al 45 per cento. E l’aumento è stato impressionante perché, a ogni rapinatore seriale che viene arrestato, viene interrotta la sua capacità di delinquere. Non solo, grazie al Key crime il colpevole sconterà la pena per tutti i reati che ha commesso. Infatti, ogni volta che viene arrestato un rapinatore grazie al computer diventa possibile attribuirgli anche altri colpi rimasti a carico di ignoti.

A progettare, sperimentare e brevettare il software è stato un assistente capo della polizia, Mario Venturi, in servizio alla questura di Milano. Con alcuni colleghi, e con nessun costo per il Viminale, ha arricchito ogni giorno il database dei criminali seriali. E oggi, dopo anni di sperimentazione, il Key crime è pronto a evolversi. Il software infatti sarà dotato di nuovi strumenti che lo renderanno in grado di «pensare», di attribuire un diverso peso alle informazioni che è chiamato a elaborare. E in luglio il Key crime è arrivato perfino negli Stati Uniti. Giovanni Mastrobuoni, economista esperto di sicurezza, docente al Collegio Carlo Alberto di Torino e all’Università dell’Essex, in Gran Bretagna, ha infatti analizzato le applicazioni del software e il 26 luglio ha presentato il suo studio all’Economics of crime working group del National bureau of economic research del Massachusetts. «Possiamo stimare» afferma Mastrobuoni «che in una metropoli delle dimensioni di Milano, Roma o Napoli, se polizia e carabinieri impiegassero il Key crime, ci sarebbero 1.000 rapine in meno all’anno e si salverebbero 3 milioni di euro di bottino».

Lo studio di Mastrobuoni ha anche messo in evidenza come il confronto tra la polizia (che usa il Key crime) e i carabinieri (che invece adottano strumenti più tradizionali) nella repressione delle rapine seriali a banche, farmacie ed esercizi commerciali nella provincia di Milano sia molto sbilanciato a favore dei poliziotti. Misteriosamente, però, lo strumento investigativo non riesce a uscire dalle stanze di via Fatebenefratelli, sede della questura. Sebbene sia stato più volte presentato al Viminale, il Key crime non viene diffuso né condiviso con altre questure o forze di polizia. Eppure, modificando alcuni parametri, potrebbe essere applicato a qualsiasi tipo di reato seriale, come le violenze sessuali da strada.
Chi ha potuto apprezzare da vicino i risultati del Key crime è il vicecapo della polizia, Alessandro Marangoni, che dal 2010 al 2012 è stato questore di Milano. Può darsi che con uno sponsor di così alto rango la polizia riesca a vincere la ritrosia verso le nuove tecnologie, tanto più quando sono autoprodotte e a costo zero.
Un auspicio anche per Felice Romano, segretario generale del Siulp, il maggiore sindacato di polizia. «Programmi come il Key crime» sottolinea Romano «integrano la tecnologia con il lavoro dell’agente e sono una risorsa efficace, che va sviluppata, vista la scarsità di risorse a disposizione e i 13 mila operatori di polizia in meno rispetto all’organico previsto».
Poliziotti che mancano e che, in tempi di ristrettezze di bilancio, potrebbero essere sostituiti da un produttivissimo «sbirro» cibernetico.