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 2013  agosto 28 Mercoledì calendario

DEMOLITI DA UN DESIDERIO

Quel pasticciaccio brutto di Saluzzo. Un uomo maturo e due giovani donne, di cui una all’epoca minorenne. Parliamo di un rapporto maledetto, di attrazione fisica, di sesso. Forse persino di affetto. Sin qui la cronaca: un insegnante arrestato e indagato per aver avuto rapporti sessuali con due sue studentesse. Non è la prima volta: è solo l’ultimo episodio di un lungo elenco. Le reazioni incredule di un’intera comunità, che non vuol credere alla mostruosa verità su un cittadino stimato e al di sopra di ogni sospetto, ci suggerisce che esiste un vuoto di senso che il pensiero comune non sa riempire. Solo la letteratura ci riesce.
PERCHÉ È un’impasse. È una situazione in cui ci si trova di fronte a qualcosa che non ha nome. Non ha una grammatica. Ha però tutta la forza di ciò che è reale. E come tutte le cose che accadono e che è difficile nominare, ha una forza potente. Talmente potente che abbiamo inventato la letteratura per raccontarla (così come anche l’incesto, Freud e tanto altro ancora). La situazione dell’amore impossibile, contrario a qualsiasi norma sociale e morale, è un cliché letterario sperimentato e longevo. “Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia”, recita il celebre canto di Humbert Humbert, quarantenne annoiato invaghito dalla ninfetta dodicenne, ai suoi occhi maliziosa e spregiudicata (che dobbiamo al sublime Vladimir Nabokov). E uno dei topos letterari più fortunati è proprio la messa in scena del rapporto professore e allieva. Amore impossibile, uno di quelli che già Giovanni Verga descriveva con cinica e perfida lucidità nella novella intitolata X: “Cotesto amore dunque che ha ispirato tanti capolavori, e che riempie per metà gli ergastoli e gli ospedali”.
L’ALLIEVA GIOVANE e il professore maturo (più raramente il contrario, come per esempio ne La pianista, il romanzo del premio Nobel Elfriede
Jelinek da cui è stato tratto l’omonimo film di Michael Haneke) ha alimentato sogni e passioni erotiche. Sin dall’Ottocento, epoca di romantici vagheggiamenti. A uno di questi dobbiamo due capolavori della scrittrice inglese Charlotte Brontë. Se non si fosse perdutamente innamorata del professor Constantin Héger, suo docente a Bruxelles, non avremmo né Il professore né Jane Eyre, variazioni sul tema del tormento per un amore inaccettabile. Anche l’americana Emily Dickinson, appena sedicenne, provò un’amicizia speciale poi diventata passione irrefrenabile – e non corrisposta – per il suo professore Leonard Humphrey. Sin quando questi sogni rimangono disattesi sono soltanto struggimenti di belle donzelle incomprese. Il problema è quando le allieve soddisfano i desideri dei professori che sfruttano le opportunità della loro posizione sociali. Maestro del genere è l’americano Philip Roth, capace di dare corpo a tutti i fantasmi del desiderio. Ne L’animale morente è David Kepesh, cinico e libertino professore universitario, che vive le storie con le sue studentesse in maniera del tutto disincantata sino a quando ne troverà una che rompe la dialettica del desiderio per fargli scoprire quella della morte, legate più di quanto si possa pensare. Ma dove Philip Roth riesce a dare un nome a questi rapporti impossibili è La macchia umana. Qui scrive con spietata crudeltà: “Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per esser qui”.
QUELLO DEL DESIDERIO è un ordigno pericoloso, è una miccia che una volta accesa fa fuggire tutti, anche quando si scoprirà che è soltanto un petardo, una buffonata da ragazzi. Ma la “macchia umana” lascia un segno indelebile che è visibile a tutti: una volta segnato sei un paria, sei l’untore, sei il male. È la scena che con rigore geometrico e parossistico racconta David Mamet nel suo Oleanna. Una studentessa, Carol, scontenta e infelice, trova la benevolenza del suo docente John. Questo gli parla, la consiglia, accetta di darle ripetizioni. Nessuna malizia, nessun espediente o secondo fine. Lei a un certo punto ha una crisi, è infelice e spaurita, si agita, così lui la abbraccia, paterno. Sembra finito lì. Ma è l’inizio di un concatenarsi di ingranaggi: lei lo accusa, prima di maschilismo e razzismo (lui si era lasciato sfuggire qualche considerazione infelice), poi di tentata violenza sessuale. Si tratta della messa in scena delle forme dispotiche dell’esclusione e del potere. La situazione complessa e provocatoria si alimenta del potere del professore e di come può agire sugli allievi, e anche del potere di una società malata in cui la donna è oggetto di molestie e forme di violenza ingiustificabili. E quindi una realtà nella quale meccanismi crudeli possono agire su quella linea, già sfocata, fra verità e menzogna. Mamet fa dire ai suoi due protagonisti: “Sono costantemente alla ricerca di un paradigma, dice John. Non so cosa sia un paradigma, replica Carol”.
Il problema è proprio questo: parlando di letteratura possiamo persino osare un paradigma. Nella realtà invece no, non abbiamo strumenti certi, griglie di comprensione che ci aiutano a capire ciò a cui non vogliamo credere. Perché significherebbe avventurarsi anche in perversioni, in sfumature spesso patologiche, varcare soglie cui è bene non approssimarsi troppo. Così ci hanno sempre detto. Ma queste soglie sono umane, troppo umane – con tutto ciò che comporta questa parola difficilissima e meravigliosa.