Giovanni Orsina, La Stampa 29/8/2013, 29 agosto 2013
MODERATI DI LOTTA IN DOPPIOPETTO
Il bivio di fronte al quale si è venuto a trovare in queste settimane Berlusconi è con ogni probabilità il più difficile della sua vita pubblica, e le sue incertezze, ancorché assai rischiose per il paese, sono umanamente comprensibili.
Pesa molto, a quel che si dice, la tentazione irrazionale del «muoia Sansone con tutti i Filistei», sostenuta dalla convinzione di esser vittima di una persecuzione giudiziaria del tutto iniqua. Ma pesano pure le tante incognite di una situazione quanto mai aleatoria, tale da rendere ardua anche una scelta politicamente razionale fra la via della responsabilità e quella dell’ordalia elettorale: se si aprisse la crisi di governo si andrebbe davvero al voto subito, o nascerebbe una nuova maggioranza? E, anche date le elezioni, chi guiderebbe lo schieramento di centrosinistra, e come reagirebbero gli elettori di centrodestra? Ancora: un comportamento responsabile può davvero aprire la strada a una soluzione politica e giuridica del noto problema della «agibilità»?
Pure al di là dei dubbi del Berlusconiuomo, a ogni modo, in questa vicenda svolge un ruolo di rilievo la doppiezza storica del berlusconismo-movimento. La metafora ornitologica dei falchi e delle colombe, che i media in queste ultime settimane hanno utilizzato fin troppo, e che sta a segnalare proprio quella doppiezza, non nasce di certo oggi, ma si è venuta costantemente riproducendo lungo tutto l’ultimo ventennio. Potrebbe insomma sostenersi che l’intera storia del berlusconismo sia stata in realtà la storia di un’ambiguità – felice alle elezioni, infelice al governo –, e della dialettica raramente facile o pacifica fra i suoi due corni. E che quel che sta accadendo in questi giorni non sia altro che l’ultima (e finale?) incarnazione di questo conflitto ventennale.
Da dove venga quest’ambiguità, è piuttosto chiaro: il carisma personale di Berlusconi, le risorse straordinarie di cui poteva e può disporre, la sua altrettanto straordinaria capacità comunicativa, gli hanno consentito di riempire da solo lo spazio politico di centro destra che fra il 1992 e il 1994 i magistrati di Mani Pulite avevano svuotato di istituzioni, punti di riferimento storici, classe dirigente, culture. Incidentalmente, è di una certa utilità rammentare oggi fino a che punto il Berlusconi politico sia stato figlio della tempesta giudiziaria dei primi Anni Novanta: una ragione in più per ritenere che lo scontro fra il Cavaliere e la magistratura difficilmente possa essere considerato una mera «questione privata». La leadership di Berlusconi, a ogni modo, che indubbiamente ha non poco di populista, da allora ha rappresentato da sola il centro destra italiano. Al contempo però – in un paese civile e integrato in Europa, lungo un arco temporale di vent’anni, molti dei quali trascorsi al governo, godendo di una forza elettorale notevole in alcune delle regioni più ricche e avanzate d’Italia – il berlusconismo ha pure svolto le funzioni di un centro destra istituzionale, responsabile, moderato, «in doppio petto». Non per caso già a partire dalla seconda metà degli Anni Novanta Forza Italia ha cominciato a recuperare spezzoni di classe politica che erano appartenuti ai partiti di governo dell’era pre-Tangentopoli. E non per caso nel 1998 è entrata nel Partito popolare europeo.
Ma la complessità del berlusconismo non finisce qui. La sua ambiguità infatti è stata elettoralmente felice, come accennavo sopra, perché ha trovato corrispondenza in un’altra ambiguità presente nell’Italia non progressista. Non solo è riuscita a mettere insieme gli elettori di centro destra politicizzati, temperati e cauti con quelli più arrabbiati, antipolitici e anti-istituzionali, o più distratti e apatici, che il Berlusconi populista sapeva meglio raggiungere. Ma soprattutto è servita a intercettare quella parte non irrilevante dell’elettorato che è allo stesso tempo sia moderata e «in doppio petto», sia antipolitica e anti-istituzionale. Un ossimoro tipicamente italiano, questo, che può spiegarsi con la fragilità storica delle nostre istituzioni ma forse ancor di più con la convinzione, nutrita da quegli elettori, che la Repubblica italiana sia stata fin dai suoi esordi, e in maniera massiccia a partire dagli Anni Sessanta, «occupata» da una retorica progressista ostile tanto ai valori liberali e conservatori quanto ai ceti sociali che li condividono. E che quindi delle istituzioni repubblicane si possa – si debba – diffidare, pur rimanendo dei moderati e degli uomini (e donne) d’ordine.
Che cosa ne sarà del centrodestra – e quindi dell’intero sistema politico italiano – dopo Berlusconi, dipenderà moltissimo da quando e soprattutto da come egli uscirà di scena. La partita che il Cavaliere sta giocando in queste settimane, insomma, è cruciale non soltanto per i suoi destini personali, ma per tutto il paese. Qualsiasi cosa succeda, a ogni modo, comunque esso sciolga la sua ambiguità ventennale, che finisca per marciare verso il moderatismo o verso il populismo, il centrodestra post-berlusconiano dovrà trovare la maniera di affrontare anche le ambiguità presenti nel suo elettorato. Ambiguità che finora soltanto il Cavaliere si è dimostrato capace di rappresentare e di gestire.