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 2013  agosto 28 Mercoledì calendario

PERCHÉ SARÀ UN’OPERAZIONE-LAMPO

L’intervento militare statunitense in Siria potrebbe scattare già nelle prossime ore, ma sarà caratterizzato con ogni probabilità da una campagna-lampo con l’impiego di missili da crociera lanciati da aerei, navi e sottomarini che colpiranno senza neppure avvicinarsi al territorio siriano. A Washington e Londra tutti gli osservatori considerano infatti quasi certa un’operazione di rappresaglia che punisca Assad per l’uso su vasta scala di armi chimiche, un blitz della durata di due o tre giorni che distrugga edifici governativi, comandi militari e dell’intelligence senza però influire direttamente sulla guerra civile. Un’opzione minimale per la quale sono stati mobilitati quattro cacciatorpediniere statunitensi e un sottomarino britannico e forse anche bombardieri B-2 Spirit invisibili ai radar, jet Tornado britannici (che indiscrezioni indicano in rischieramento a Cipro) e forse anche Rafale francesi.
Uno sforzo bellico che si aggiungerebbe all’incremento degli aiuti militari e dell’addestramento alle milizie ribelli, già in atto in Turchia e Giordania, ma che eviterebbe un più ampio coinvolgimento degli Stati Uniti in un conflitto che per alcuni aspetti assomiglia a quello libico di due anni or sono, ma che potrebbe risultare molto più complesso e pericoloso. Gheddafi e il suo regime erano isolati e ciononostante alla Nato ci vollero sette mesi per avere ragione delle raffazzonate truppe del raìs, anche a causa dell’assenza di forze occidentali sul campo di battaglia. I soldati di Damasco sono armati e addestrati molto meglio dei libici, hanno maturato un’ampia esperienza di combattimento e dispongono di missili balistici efficienti, armi chimiche concepite proprio come deterrente strategico e un buon sistema di difesa aerea, oltre a poter contare sull’aiuto costante di russi e iraniani.
Un attacco di limitata entità potrebbe determinare risposte poco più che simboliche, e quindi un ridotto rischio di escalation anche se Mosca potrebbe replicare fornendo a Damasco i moderni missili S-300 finora negati. Negli ultimi mesi Assad ha incassato senza rispondere almeno quattro raid aerei israeliani diretti a colpire convogli di razzi a lunga gittata destinati a Hezbollah e i depositi dei missili da crociera antinave Yakhont che i russi hanno consegnato alla Marina siriana proprio per aiutarla a contrastare attacchi dal mare.
Pressata dagli alleati arabi, turchi e franco-britannici che vogliono da tempo un intervento e dall’opposizione repubblicana che teme «la perdita di credibilità degli Stati Uniti», come ha detto ieri il senatore John McCain, la Casa Bianca sembra voler evitare l’adozione di opzioni militari più "robuste". L’instaurazione di una no-fly zone o un intervento terrestre, anche limitato a costituire aree-cuscinetto nelle regioni di confine con Turchia e Giordania, risulta poco probabile per il momento anche perché comporterebbe un consistente e prolungato impegno militare. Condizione difficilmente compatibile con i tagli al Pentagono, la politica di progressivo disimpegno che ha già visto il ritiro statunitense da Iraq e Afghanistan e con la dottrina obamiana del "leading from behind".
Inoltre i costi di un’azione militare ad ampio respiro che coinvolgerebbe migliaia di soldati con navi e aerei sarebbero molto elevati, come ha ammonito in più occasioni il generale Martin Dempsey a capo degli stati maggiori riuniti, da sempre scettico nei confronti di un intervento americano in Siria. A differenza del conflitto in Kosovo le sole incursioni aeree non sarebbero sufficienti a piegare il regime siriano mentre, come è emerso chiaramente dopo la guerra in Libia, senza una credibile forza di stabilizzazione sul terreno si rischia di lasciare la Siria nel caos, alla mercé dei qaedisti e delle diverse milizie sponsorizzate dai bellicosi vicini di Damasco.