Francesco Pacifico, Lettera43 28/8/2013, 28 agosto 2013
DAMASCO, IL BLITZ COSTA CARO
Si fa presto a dire attacco lampo. Soprattutto per l’Italia, che con il solo miliardo impegnato nella legge di Stabilità del 2012 deve ancora finanziare le missioni all’estero nel quarto trimestre. Un artificio contabile necessario a Mario Monti per tagliare di circa 400 milioni questa voce di spesa e raggiungere il pareggio di bilancio.
Senza dimenticare che il vecchio governo (come il nuovo del resto) faceva molto affidamento sul ritiro dall’Afghanistan. Da allora sono cambiate molte cose: l’esecutivo Letta, a maggior ragione dopo la condanna di Silvio Berlusconi, deve trovare 6 miliardi per tagliare l’Imu ed evitare l’aumento dell’aliquota Iva. E poi si profila l’intervento in Siria.
A Washington e a Londra, capofila della coalizione anti-Assad, s’interrogano se Roma abbia la stabilità politica per far approvare dal suo parlamento la missione. A Roma, più prosaicamente, si chiedono se Bruxelles possa escludere dal calcolo del deficit di bilancio (il tetto è fissato al 3%) i costi di una partecipazione alle operazioni in Medio Oriente.
Anche perché si ipotizzano costi diretti e indiretti vicini al miliardo di euro. Non a caso dietro la cautela del nostro ministro degli Esteri Emma Bonino si leggono sia i dubbi sulla bontà dell’operazione sia i limiti tattici e finanziari della cosa.
Ma questo tema è anche al centro del dibattito americano. In una lettera ai leader del Congresso Martin Dempsey, capo di Stato maggiore interforze, ha dato una quantificazione di massa sulle ipotesi in circolazione al Pentagono (formazione dell’opposizione siriana, attacchi aerei limitati per armi pesanti di Assad, attuazione di una no fly zone, creazione di zone tampone o protezione delle armi chimiche). Per Dempsey si passa dai 500 milioni di dollari per addestrare una forza locale fedele agli occidentali al miliardo delle ipotesi di attacco. Sarà possibile fare una stima soltanto guardando le regole di ingaggio. E, se anche l’Italia non partecipasse, c’è da chiedersi se realmente potrà negare le sue basi a una coalizione nata sotto l’ombrello Nato.
Per fare due conti è utile guardare a quanto è stato speso in una missione che pure doveva essere rapida come quella siriana: cioè l’attacco alla Libia del 2011. Nei tre mesi nei quali fu impegnato il nostro contingente, l’impegno italiano è stato pari a 700 milioni di euro. In quell’occasione l’Italia portò a termine 1.900 missioni per un totale di 7.300 ore di volo tra pattugliamenti aerei, distruzione di obiettivi nemici, difesa aerea, rifornimento in volo e fornimento di sette basi aeree. Per non parlare del costo degli ordigni sganciati.
Gli esperti della Difesa non escludono che anche la guerra in Siria abbia gli stessi tempi e confini. Ma temono che per non ripetere l’errore commesso a Tripoli – lasciare la ricostruzione in mano ai Fratelli musulmani – possa seguire una missione di terra, con gli italiani molto stimati in ambito Nato per questo tipo di interventi. Allora sì che i costi potrebbero crescere ancora di più.
Ci sono poi i costi indiretti. In caso di un attacco straniero, il numero delle persone in fuga da Damasco e dintorni è destinato a decuplicarsi. E l’Italia a essere una delle mete predilette dai migranti. Il milione e mezzo di profughi siriani rifugiato in Giordania viene invitato con modi tutt’altro gentili a sloggiare. Ad Amman, dove la disoccupazione giovanile è del 30%, l’accoglienza è vista come una bestemmia. E lo stesso potrebbe avvenire in Libia, dove 1 milione di siriani potrebbe rientrare nelle dinamiche di persecuzione e guerra civile che già vedono contrapposti i cristiani coopti e gli sciiti.
Stando agli ultimi dati della Caritas, l’Italia spende circa mezzo miliardo per le attività di accoglienza e la gestione dei centri di espulsione. Altri 2 miliardi finiscono alla macchina giudiziaria per le attività di repressione della criminalità. Con almeno 1 milione di profughi in più, c’è il rischio che servano molti più soldi.
Da non sottovalutare nemmeno la reazione dei mercati. Mentre Barack Obama annunciava di fatto l’opzione militare, il petrolio Wti a New York scendeva verso i 105 dollari al dollari. Ma il calo era dovuto soltanto all’aumento della produzione libica. Infatti, in serata il greggio ha ripreso la sua corsa verso i 107 dollari. Per non parlare della pressione sui debiti sovrani. Lo spread tra Btp e Bund – complice la crisi del governo italiano – è schizzato oltre i 250 punti.
Dicono gli economisti che tenere il petrolio intorno agli 80 dollari si traduce in un bonus per le famiglie vicino ai 1.000 euro all’anno. Mentre 100 punti di spread costano allo Stato almeno 15 miliardi di euro in interessi passivi sui propri bond. Ecco perché l’intervento in Siria ha (almeno) 1 miliardo di controindicazioni.