Massimiliano Panarari, la Stampa 28/8/2013, 28 agosto 2013
HOMO CELLULARIS FLUIDO MA NON TROPPO
Sembrerebbe preistoria. E, in un certo senso, lo è, se si guarda a quell’evento con gli occhi (e le dita molto touch screen ) dell’oggi, immersi come siamo nel regno di Blackberry, iPhone e smartphone tecnologicamente sempre più avanzati e ormai (seriamente) tuttofare.
La gloriosa storia della telefonia mobile ebbe inizio (come tanto altro) sullo sfondo delle avenue della Grande Mela. Il 3 aprile 1973, a Manhattan, l’ingegner Martin Cooper (uno dei responsabili della divisione ricerche di Motorola, con una passionaccia per Star Trek ) si piazzò davanti all’Hotel Hilton sulla Sesta Strada e «diede uno squillo», con uno stranissimo arnese, al suo omologo e rivale Joel Engel dei Bell Laboratories (dove, nel ’47, era stata concepita per la prima volta l’idea che si potesse telefonare senza aver bisogno di fili). E, dopo quella chiamata (condita di «benevoli» sfottò) del raggiante Cooper, nulla fu più come prima.
Il capostipite (per l’epoca estremamente high tech , e adesso altrettanto vintage ) della specie dei cellulari si basava sulla tecnologia detta DynaTac – Dynamic Adaptive Total Area Coverage, un sistema di comunicazione analogico – e aveva dimensioni piuttosto esorbitanti, perché il (sedicente) «telefonino», coi suoi 13 centimetri di spessore, era grosso come un mattone e pesava un chilo. Necessitava di 10 ore per ricaricare la batteria, poteva contare su una mezz’oretta di autonomia (quando andava bene), il display, ovviamente, manco a sognarselo, e le chiamate si facevano e ricevevano all’interno di una distanza molto limitata (telefono portatile sì, ma senza esagerare).
Rappresentava un caso da manuale di Big science : Motorola per la costruzione del primo esemplare ci aveva investito decine di milioni di dollari e molte delle sue migliori risorse umane. Per la commercializzazione vera e propria, però, si dovette aspettare un’altra decade, e l’uscita, sempre made in Motorola, del DynaTac 8000X, che si vendeva alla bellezza di 4 mila dollari dell’epoca e, chiaramente, faceva molto status. Poi, sul finire degli Anni Ottanta, viene lanciato un apparecchio destinato a grande fortuna, lo Startac, e la telefonia mobile inizia, prima lentamente, poi in maniera travolgente, la sua lunga marcia trionfale, mentre cominciano a fioccare sul mercato anche i modelli dei competitor .
Il Postmoderno avrebbe così trovato un formidabile «ferro del mestiere» proprio in quello strumento delle Ict, che cessava di essere il simbolo di una condizione lavorativa e di un’appartenenza sociale esclusive, per coincidere sempre più con un bene universale di consumo e una protesi irrinunciabile del neonato Homo cellularis . E con il vessillo di un’epoca fattasi davvero liquida, tra dominio della comunicazione e smaterializzazione dei flussi di ogni genere e intensità. Già, perché quel «senza fili» vale, altresì, per «senza luoghi» e, quindi, significa essere potenzialmente in ogni dove quando il telefonino trilla. La prima, e più fatidica, delle domande diventa allora (come ci è capitato di sentire in centinaia di occasioni): «Dove sei?», tanto da far assurgere l’oggetto in questione alla condizione di «filosoficamente rilevante» (mentre il quesito di cui sopra finiva nel titolo di un libro di Maurizio Ferraris consacrato all’ontologia del telefonino, tra Heidegger e McLuhan, Derrida ed Eco).
Il cellulare costituisce dunque un autentico prisma, che travalica l’oralità delle origini, per passare alla scrittura e alla lettura, spalancandosi infine alla multimedialità e all’oceano della Rete. Dall’orecchio si passa alla mano e all’occhio, nel tripudio del dilatarsi dei sensi. Oltre a parlare, difatti, sul cellulare versione «intelligente» smanettiamo alla grande (passandoci una marea di tempo), scriviamo, leggiamo, e troviamo ulteriori modi per comunicare (come le chat) e intrattenerci. E, a proposito di prismi (del genere, però, dell’omonimo programma di controllo della National Security Agency rivelato da Edward Snowden), aumentiamo esponenzialmente la nostra rintracciabilità. Ma come, non si era detto che il telefonino, sulle ali di Mercurio (divinità cara alle scienze della comunicazione), ci trasportava ovunque, consegnandoci allo stadio della perenne – e introvabile – fluidità, da Bauman deprecata e dai teorici «dionisiaci» della postmodernità, al contrario, esaltata?
Gli italiani, popolo di natura assai ciarliera (anche nelle sue classi dirigenti), vivono da tempo nella psicosi (ma neanche tanto, visto che tutti continuano bellamente a chiacchierare dei fatti propri, leciti e non) delle intercettazioni, divenute un must della conversazione da bar e un incubo del dibattito pubblico. E così, il cellulare che portiamo in tasca, in un clima di sorveglianza da far impallidire le genealogie concettuali di Foucault, diventa un inarrivabile Panopticon a disposizione del Potere, e il flusso di chiacchiere, insieme con la «georeferenziazione» della nostra posizione (dovuta alla cella radio cui si aggancia per funzionare), va ad alimentare, nostro malgrado, un ineffabile Big Data di notizie sensibili. In tal modo, si finisce a respirare l’aria di una distopia fantascientifica realizzata, agevolata proprio dal cellulare dall’apparenza tanto innocente. Mentre, ben più prosaicamente, questo congegno amato-odiato ha accompagnato il crescere della vigilanza domestica delle nostre ansiose famiglie sui figli e ci ha obbligati tutti quanti a subire ascolti snervanti (e molto «cafonal») delle vicende altrui a bordo di qualsivoglia mezzo di trasporto.
Insomma, dispositivo polisemico per eccellenza, il telefonino ci dice moltissimo, una volta di più, su noi stessi (e la nostra «antropologia«). E conferma pure che il vecchio Marx ci aveva visto lungo quando aveva diagnosticato il feticismo delle merci.