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 2013  agosto 28 Mercoledì calendario

ALLA SCALA COME A SAN SIRO VIOLETTA ARRIVA DALLA GERMANIA

In attesa che qualcuno inventi l’opera a chilometro zero, capita che il 7 dicembre prossimo la Scala inauguri con una «Traviata» dove Violetta è tedesca, Germont junior polacco, Germont senior serbo, il regista russo e il direttore, almeno lui, italiano, anzi milanese. Esattamente come a San Siro, in questo caso davvero la Scala del calcio (e viceversa).

L’opera è come la pizza: un prodotto italiano che piace talmente che si sono messi a farlo tutti gli stranieri e magari pensano pure di averlo inventato loro. È il destino di ogni trovata di successo. Di conseguenza, l’opera è diventata uno spettacolo «global» ben prima che fosse inventata la globalizzazione e non solo gli stranieri cantano Verdi e Puccini a casa loro, ma ormai lo fanno anche a casa nostra (e spesso meglio).

Del resto, l’italiano «cantato» più bello ed espressivo che si possa ascoltare è tuttora quello di una signora greca che si chiamava Maria Kalogeropoulos in arte Callas, e vabbé che si era sposata a Verona e nella vita «parlata» esibiva un forte accento veneto.

Non è stato sempre così. Per un paio di secoli, l’opera è stata il prodotto italiano per eccellenza. Dall’Avana a Pietroburgo e da Stoccolma a Lisbona, era scritta, composta, cantata e messa in scena da italiani. I castrati, rari dunque cari, erano il «made in Italy» per eccellenza, come oggi la Ferrari o Armani (e qual è tuttora la nostra terza griffe più conosciuta nel mondo? La Scala). Per fare attraversare il Baltico in tutta sicurezza a un evirato cantore, Svezia e Polonia sospesero una guerra.

Gli stranieri si adeguavano. Il più grande operista italiano del Settecento fu Georg Friedrich Haendel, che era sassone ma scriveva (a Londra) opere italiane su parole italiane. Dei sette capolavori teatrali di Mozart, cinque sono italiani. I cantanti che non avevano avuto la fortuna di nascere sotto il Brennero cercavano di farlo credere, anche perché così li pagavano di più.

Michael O’ Kelly, il tenorino irlandese che fu il primo Basilio delle «Nozze di Figaro», si faceva chiamare Signor Ochelli. Poi prima la Francia (ma l’operista del Re Sole, Lully, si chiamava in realtà Lulli ed era nato a Firenze), poi tutti gli altri Paesi si inventarono la loro opera e ovviamente cominciarono a farsela in casa. Ma ancora a lungo la lingua franca dell’ambiente rimase l’italiano e gli italiani i suoi dominatori.

Oggi è una Babele. Due giorni fa, alla «Norma» del festival di Salisburgo, la primadonna e il basso erano italiani, il tenore americano, l’altra donna messicana, i comprimari una rumena e l’altro cubano, orchestra e coro svizzeri e Felice Romani era sottotitolato in tedesco e in inglese.

Proprio l’inglese ormai ha spodestato l’italiano come lingua di servizio nei teatri, anche se poi quando ti rivolgi a chi ci lavora, dal sovrintendente al custode, scopri che l’italiano lo capiscono tutti e molti lo parlano. Magari in librettese, come quel tenore americano che al Regio di Torino raccontò che cantare Idomeneo era terribile perché anche lui aveva perso un figlio, ed era «troppo tormentoso».

Poi c’è stata la carica degli orientali, valanghe di giapponesi e cinesi e coreani (soprattutto coreani) che ci provano e quando va male finiscono nei cori. Quello della Staatsoper di Vienna, impegnato sempre a Salisburgo nei «Maestri cantori», è zeppo di gente con gli occhi a mandorla, tanto che nel finale più che a Norimberga sembra di stare a Seul.

Però tuttora è più frequente che gli stranieri cantino l’opera italiana che gli italiani quella straniera (e per lo più si limitano al francese, che in bocca loro corrisponde davvero alla definizione di Hegel: «Diese Karikatur des italienische Sprache», questa caricatura dell’italiano).