Gigi Garanzini, la Stampa 28/8/2013, 28 agosto 2013
SE IL VIVAIO NON È PIÙ UN VALORE
Il Parma e il Torino hanno inaugurato il campionato con tre (soli) stranieri su undici. Poi con i cambi in corsa i granata sono saliti a cinque, in compenso la Fiorentina che nella formazione di partenza tre italiani li aveva, ha chiuso con l’en plein, undici su undici. Che fare? Rimpiangere i tempi lontani dell’autarchia, delle frontiere sbarrate e poi riaperte col contagocce, di quelle due sole fiches straniere che ancora trent’anni fa erano consentite? Questo è il calcio globale, bellezza, e tu non ci puoi fare niente.
Se non eccepire, timidamente, questo magari sì. Perché nel battaglione di 156 stranieri su 278 c’è il grano, sì, ma c’è anche il loglio. Ci sono fior di campioni, pedine preziose, altre interessanti, alcune futuribili. Così come ci sono giocatori appena normali, che in molti casi non valgono i nostrani, e un discreto numero di pippe. D’altra parte così come importiamo mano (piede?) d’opera a man salva, molta la esportiamo, e non tutta di qualità. E se ti sbagli a far presente ai club, di tutto il mondo, non soltanto gli italiani, che l’identità nazionale è un valore, quelli rispondono che per l’appunto esistono le Nazionali. E tutti i torti in fondo non li hanno.
Il problema infatti è proprio di chi le Nazionali le deve mettere insieme. Risuonano di tanto in tanto appelli, per la verità sempre meno convinti, sempre più rassegnati, da parte di commissari tecnici e selezionatori. Soprattutto di rappresentative giovanili, perché ormai anche le squadre di provincia privilegiano lo straniero – teoricamente fatto e finito all’autoctono di bellesperanze.Ilche significa che la maturazione dei giovani avviene in panchina, con conseguenze inevitabili sul piano della personalità e dell’esperienza al momento di indossare la maglia azzurra.
Prandelli, in fondo, se la passa ancora discretamente bene. Certo non come ai tempi di Bearzot e Valcareggi, ma almeno un blocco difensivo esiste, targato Juventus, i due attaccanti teoricamente titolari giocano insieme nel Milan, Pirlo e Montolivo sono inamovibili in questi due club, così come quasi tutti gli altri che compongono la rosa. Ma gli allenatori dell’Under 21, ieri Mangia oggi Di Biagio, ripartono ogni volta daccapo. E quei pochi su cui riescono a costruire un telaio, ultimo esempio gli interisti del recente Europeo in Israele, non vengono premiati con l’inserimento non si dice in squadra, ma almeno nella rosa della casa madre, bensì con il trasferimento all’estero.
Magari sarà la loro fortuna. Ma è probabile che un ragazzo cresciuto nell’Inter, dopo aver dato buona prova di sé in maglia azzurra sogni di giocare nell’Inter, non nel Leverkusen. E che allo stesso modo la pensi la componente romantica del tifo, che non è maggioranza, ma nemmeno minoranza da sottovalutare. In lontani pomeriggi al Filadelfia, le migliaia di persone che accorrevano al richiamo della partitella del giovedì non badavano soltanto alla forma dei titolari: ma si divertivano a indovinare chi tra gli sparring-partner della Primavera ne avrebbe prima o poi preso il posto.
Senza tornare al mito della cosiddetta razza-Piave, che innervò le squadre più forti del dopoguerra, basterebbe forse che le società tenessero in maggior conto il meccanismo di identità. Per il tifoso conta il risultato, e poco altro. Ma se a ottenerlo, a fare la sua parte per ottenerlo, è un ragazzo cresciuto nel vivaio che poco alla volta si è guadagnato la prima squadra, il tifoso percepirà un piccolo valore aggiunto. Se l’erede di Totti arrivasse dalla Pampa piuttosto che dalle Falkland i tifosi se lo terrebbero ben stretto. Se crescesse a Trigoria, anche di più.