Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 27/8/2013, 27 agosto 2013
IL VERO RISCHIO È UN ALLARGAMENTO DEL CONFLITTO
Anche a Damasco come è successo a Baghdad tra il 1991 e il 2003 vedremo il cielo illuminato dalle parabole dei Cruise e dalla luce intensa dei traccianti? Cosa accadrà dentro e fuori da questo Paese che non esiste quasi più?
L’attacco alla Siria se sarà soltanto simbolico, qualche missile contro i centri di comando, potrebbe dimostrarsi inefficace e controproducente. Il regime, baathista come quello di Saddam, ne uscirebbe rafforzato: come abbiamo visto in Iraq e anche in Libia la "silver bullet", la pallottola d’argento che fa fuori il mascalzone di turno, non funziona, adesso peraltro è un flop persino al box office di Hollywood.
E se pure Bashar e i suoi comandanti fossero colpiti, la guerra è destinata a continuare sotto forme diverse, quelle della guerriglia e del terrorismo, coinvolgendo ancora di più l’Iran e gli alleati Hezbollah, quindi direttamente anche il Libano che è già una retrovia incandescente di questo conflitto sia per i ribelli sunniti che per le milizie sciite schierate con Damasco. Lo scontro tra Mezzaluna sciita e sunnita uscirebbe dai saggi sulla geopolitica del Medio Oriente trasformandosi in una resa dai conti senza quartiere destinata a lacerare ancora di più le società arabe e musulmane.
L’allargamento del conflitto - e non il suo contenimento - è uno degli effetti meno desiderabili, anche per noi in Occidente: disinnescare la polveriera libanese appare assai complicato. Nel Sud del Libano controllato dagli Hezbollah è di stanza la missione Unifil, con un contingente italiano di mille uomini. Siamo sulla linea del cessate il fuoco della guerra del 2006, con Israele che già occupa le alture siriane del Golan dal 1967.
L’intervento militare americano e degli alleati dovrebbe evitare almeno di avere una guerra più grande ed estesa. A prima vista così non sembra.
A Nord la Turchia di Erdogan, portaerei della Nato che in ogni caso intende partecipare all’attacco, ha già sperimentato cosa significa essere a contatto con la prima linea: qui combattono le milizie islamiche più radicali e i curdi siriani, che hanno ingaggiato una guerra per conto proprio. Questa è una frontiera calda, così come quella dell’Iraq, cassaforte del petrolio ma Stato semi-fallito percorso da un’ondata di attentati mai vista dal 2007. Il governo di Al Maliki è alleato dell’Iran, appoggia Assad e le milizie sciite irachene sono addestrate da Teheran mentre i gruppi combattenti di confessione sunnita, in particolare Al Qaeda, oltre a sferrare attentati contro il governo di Baghdad costituiscono la punta di lancia degli integralisti più radicali in Siria.
Se nel conflitto entrassero le monarchie del Golfo, che dal primo momento della rivolta appoggiano la guerriglia sunnita contro Assad, il quadro diventerebbe ancora più esplosivo. Il Golfo del petrolio è un altro fronte perché le petromonarchie sarebbero schierate apertamente contro l’Iran degli ayatollah. Certamente i sovrani assoluti del Golfo godono della protezione delle basi americane ma questo non significa che non ci saranno conseguenze militari o economiche sui mercati mondiali. Il Financial Times qualche giorno fa insinuava beffardamente che la guerra di Siria costituisce un ottimo incentivo per tenere alti i prezzi dell’oro nero. E pure questa non è proprio una buona notizia.
Anche in Iran gli effetti di un attacco a Damasco si farebbero sentire: il neo-presidente Rohani e l’ala moderata, per meglio dire pragmatica, sarebbero probabilmente indeboliti dalla necessità di dare ancora più potere allo schieramento dei Pasdaran.
Veniamo al rapporto tra Stati Uniti e Russia. Conviene trasformare una guerra locale in uno scontro globale? Anche la Cina, l’altro lato del triangolo del potere mondiale, sostiene le posizioni di Mosca al Consiglio di sicurezza pur restando defilata. È evidente che la Russia utilizza la Siria come una leva per tornare protagonista sulla scena ma è anche preoccupata per una vittoria degli islamici radicali che costituiscono una minaccia diretta per Mosca, dentro e fuori i suoi confini.
La caduta di Assad non piace a Mosca ma nessuno ha trovato finora una via di uscita politica convincente. Perché Stati Uniti e Russia - ma non soltanto loro - alla fine hanno lo stesso problema: chi comanderà a Damasco dopo Bashar?