Ugo Tramballi, Il Sole 24 Ore 27/8/2013, 27 agosto 2013
IL MODELLO E’ IL KOSOVO, LA PROSPETTIVA UN ALTRO IRAQ
La definizione è «guerra umanitaria», l’aveva usata Tony Blair per il Kosovo. Ma per tutto il resto sembra essere una guerra come le altre: con la vittoria finale incerta e un dopoguerra ancora più oscuro. Come nei precedenti, sembra che anche di questo conflitto non si possa fare a meno, se vogliamo avere un mondo migliore. Con le navi che partono e la grancassa della retorica che picchia duro, la missione si sta avvicinando al punto di non ritorno.
Per quello che s’intuisce, la prossima guerra in Siria non prevede la fanteria ma solo razzi, missili, droni ed eventualmente la presenza umana su qualche bombardiere. L’idea è ripetere il Kosovo. Umanitaria o meno, quella del 1999 fu una guerra perfetta. Unico caso nella storia, la Nato vinse contro i serbi senza perdite. Con l’illusione di un conflitto senza caduti - almeno fra i nostri - l’Occidente non sta marciando verso un nuovo Kosovo ma in un altro Iraq.
Bashar Assad ha maniere solo un po’ più urbane di Saddam Hussein, ma è un brutale dittatore. Come l’iracheno, è profondamente radicato sul suo territorio: ha un esercito, forze aeree, anti-aeree e consenso di una ampia parte della società siriana. Diversamente da Saddam, ha alleati importanti. Una guerra condotta solo dal cielo, senza occupazioni territoriali, non farebbe cadere un regime così.
Il regime siriano è sufficientemente arrogante da pensare di gasare i suoi nemici senza pagare un prezzo. Ma per batterlo occorre mettere in campo tutti i parafernalia della guerra e cercare il consenso di un’opinione pubblica internazionale già perplessa. È però possibile che un "intervento chirurgico" lo indebolisca militarmente, cambiando gli equilibri sul campo di battaglia del conflitto civile. Gli oppositori potrebbero finalmente ripassare all’offensiva e magari liberare Damasco. Ma esistono un leader, un partito, una forza di liberazione? La resistenza in Siria è condotta da tante fazioni, le più armate e determinate delle quali sono le milizie qaediste.
Dalle dichiarazioni ufficiali e le infiltrazioni fatte volutamente passare alla stampa, sembra che gli occidentali sappiano come risolvere i problemi del dopoguerra. William Hague e Laurent Fabius, i ministri degli Esteri di Gran Bretagna e Francia, sono determinati a intervenire come si trattasse della salvezza del mondo. Ricordano Mark Sykes e Francois Georges-Picot, i due funzionari dei ministeri degli Esteri inglese e francese che nel 1917 disegnarono le frontiere del Medio Oriente post-ottomano, contribuendo a creare l’instabilità permanente di oggi. Gli interventi di Hague e Fabius, così privi delle alternative che la politica dovrebbe invece offrire, non fanno pensare a una "guerra umanitaria" ma alla rianimazione di un colonialismo defunto. L’altro giorno Hague si è lanciato in un ossimoro inquietante: siamo convinti che Assad abbia usato le armi chimiche, ci aspettiamo che le indagini degli osservatori Onu confermino le nostre certezze. Una logica da Gromyko.
Se inglesi e francesi sembrano gli europei di cento anni fa, la moderazione di Barack Obama ricorda quella di Woodrow Wilson: studiare la Storia non garantisce un posto di lavoro ma aiuta a comprendere il presente. Un’alternativa politica per ridimensionare il regime e impedire che la Siria diventi un califfato, esiste. L’Iran. Hassan Rohani, il nuovo primo ministro, merita un tentativo. Se bombardiamo Damasco, il nucleare iraniano diventa una certezza. Se trattiamo con l’Iran, potrebbero essere ridimensionate in un solo colpo le minacce del regime siriano, di Hezbollah libanese e della bomba. È una speranza simile a quella di chi crede d’andare a combattere in un nuovo Kosovo. Ma vale la pena provarci, prima di lanciare i Tomahawk.