Melania Mazzucco, la Repubblica 14/4/2013, 14 aprile 2013
LA MONTAGNE SAINTE-VICTOIRE DI PAUL CÉZANNE
Un paesaggio, un edificio o un semplice oggetto, attrae irresistibilmente il pittore e lo risucchia in una sorta di vortice. Finisce per concentrarsi su quello, come se in esso fosse racchiuso il segreto della sua opera, o della sua vita. E lo dipinge da diversi punti di vista o dallo stesso, in un solo periodo o a distanza di anni. Creando una serie, come Claude Monet con la cattedrale di Rouen e le ninfee, oppure opere indipendenti, diverse una dall’altra, come Paul Cézanne con la montagna Sainte-Victoire. L’ha dipinta quaranta volte a olio, e altrettante ad acquarello.
La ripetizione è caratteristica della sua pittura analitica - tant’è che si concentrò sempre sugli stessi motivi: i bagnanti, le mele, i giocatori di carte, la moglie. Ma se queste opere sconcertanti - ritenute quasi subito la matrice dell’avanguardia del ‘900 - mi lasciano ammirata e però impassibile, quelle sulla Sainte-Victoire esercitano su di me la stessa fascinazione ossessiva, quasi ipnotica, che la montagna esercitava su di lui. E quando sono andata in Provenza, mi sono accorta che la montagna non c’era più. Cioè: dopo aver visto una Sainte-Victoire di Cézanne, non si può più vedere la montagna vera, ma solo quella dipinta da lui. Così, per me, fanno le opere d’arte. Non aboliscono la realtà, ma la sostituiscono. Creano un mondo parallelo.
La Sainte-Victoire l’aveva sempre avuta sotto gli occhi, poiché era l’attrazione turistica di Aix-en-Provence, la sua città natale: cartolina già usurata dai paesaggisti locali, meta di escursioni e di scavi (vi erano stati rinvenuti fossili e uova di dinosauro). Ma Cézanne dovette consumare quasi tutta la vita per scoprire che quel blocco di calcare, mille metri di altitudine a dominio della piana circostante, non era solo una montagna.
All’inizio, era stata lo scenario romantico della sua adolescenza. Nella sottostante valle verde dell’Arc, prendeva il sole e faceva il bagno coi suoi amici del College Bourbon, fra cui l’inseparabile Émile Zola. Non pensava ancora di dipingerla: figlio di un banchiere, era destinato a studiare legge - e comunque sognava solo di andar via dalla provincia. Come fece quando, a 22 anni, raggiunse Parigi per diventare pittore. Lo notarono per il caratteraccio, la barba selvaggia, il linguaggio scurrile, lo stile brutale - insomma per il personaggio del pittore anti-accademico, rifiutato dai Salon. Dagli impressionisti, il cui movimento costeggiò, apprese la lezione decisiva: dipingere all’aperto, nella natura. Però, salvo una volta, la montagna sembrava scomparsa dalla sua memoria e dalla sua pittura. Finché, nel 1886, lasciò Parigi per stabilirsi definitivamente ad Aix. Voltò le spalle alla metropoli, alla speranza di gloria e alle relazioni sociali, e scelse di vivere isolato, dedicandosi solo all’esercizio della pittura, come un artigiano (dissero che vestiva “come un vetraio”). E quasi subito, la Sainte-Victoire diventa il motivo dominante. Prima la dipinge da lontano, dalla casa della sorella; poi dalle cave abbandonate di Bibémus. Infine, dopo il 1902 identifica il punto giusto. Quell’anno, infatti, Cézanne si trasferisce nella casa-atelier che si è fatto costruire a Les Lauves, su una collina sopra Aix. E’ come una rivelazione.
Cézanne esce dalla sua casa-atelier con la scatola di colori, risale la collina per un chilometro e sistema il cavalletto in un uliveto.
Tutte le ultime Sainte-Victoire (una decina a olio, 17 ad acquarello) sono dipinte da questo stesso punto di vista frontale, con spostamenti a sinistra o a destra che sembrano corrispondere al movimento reale del pittore. Sono quadri molto simili, spesso dello stesso formato: la montagna invade la superficie pittorica. La Sainte-Victoire di Zurigo è una delle ultime. Cézanne la dipinge forse intorno al 1904: è invecchiato precocemente, soffre di diabete, lamenta la crescente miopia.
Il quadro sembra dipinto in fretta, con una fitta trama di pennellate verticali, furiose, frante, quasi febbrili. Si ha l’impressione di guardare un’immagine fuori fuoco, un flusso di sensazioni a colori, un quadro astratto, una foresta vibrante, una tappezzeria indecifrabile. La visione è così sintetica che solo aguzzando lo sguardo nella tessitura cromatica si riconoscono le forme e i volumi: la macchia ocra in basso sulla sinistra riassume una casa, i tocchi di verde sono gli olivi della piana, i bianchi della canapa non dipinta i riflessi della luce sui campi. La montagna è una massa blu che si erge a due terzi della tela: la linea parallela all’orizzonte rende l’estensione, la linea perpendicolare la profondità; le nuvole verdi del cielo riflettono gli alberi, perché ciò che vediamo non è l’apparenza del paesaggio colto in un istante, ma la sua essenza unitaria e armoniosa nella persistenza della durata. Forse il quadro fu lasciato incompiuto. O forse Cézanne ritenne che il non-finito fosse il linguaggio più appropriato per restituire la sensazione esatta della sera - quando i contorni fluttuano, la montagna sta per essere inghiottita dall’oscurità, la pesantezza si dissolve e lascia spazio alla malinconia. A un amico, in quei giorni, scrisse di essere vicino alla realizzazione di sé in arte: l’esperienza di una vita intera gli aveva infine permesso di appropriarsi dei mezzi per esprimere l’emozione. Nell’ottobre del 1906, durante una sessione di pittura all’aperto, fu sorpreso da un temporale ed ebbe un malore. Fu ritrovato più tardi, fradicio e intirizzito. Aveva sempre detto di voler morire col pennello in mano e quasi ci riuscì: la polmonite se lo portò via in pochi giorni. Guardando le sue estreme Sainte-Victoire, dipinte da Les Lauves, si comprende che quel monolite roccioso, duro, frustato dal vento, che svetta solitario sulla pianura sottostante, assomigliava a lui - e per questo in esso si era riconosciuto. Cézanne è seduto davanti alla montagna. Elimina dal quadro tutto ciò che disturba: le tracce degli uomini, le strade, il viadotto - perfino le case e gli alberi. Dialoga con lei, da solo a sola: guardandosi come in uno specchio.