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 2013  febbraio 24 Domenica calendario

“LA MORTE DI PROCRI” DI PIERO DI COSIMO


C’è una giovane donna distesa sull’erba. Il manto rosso che indossava si è disfatto, lasciando scoperti corpo e seno. Il sangue stilla ancora dalla ferita alla gola, e dai graffi sul polso sinistro e sulla mano destra. Si è difesa. Ma da chi? Non si vedono assalitori, né cacciatori. Sta morendo, forse è appena morta: il suo viso ha il colore latteo del cielo. C’è un fauno dalle zampe caprine e le orecchie d’asino, accanto a lei: le scuote delicatamente la spalla, come volesse svegliarla. La fissa - contrito, innamorato e colpevole. C’è un cane fulvo, dall’altra parte. La veglia, con l’ostinata fedeltà dei cani. L’inutilità della carezza del fauno e dell’attesa del cane trasmettono a chi guarda un dolore non meno intenso perché sommesso. Dietro il corpo di lei, come ripetendone le curve, la costa digrada fino alla riva dell’acqua: un paesaggio idilliaco dove volano un pellicano e degli aironi, simbolo di sacrificio e di innocenza, e giocano altri tre cani. Strani fiori che non so riconoscere sbocciano sul prato e sui cespugli. Il contrasto fra i colori squillanti, la miniaturistica attenzione ai dettagli e la posizione delle figure accentua il senso di perdita e di malinconia. Di rimpianto, commozione e pietà per la giovane donna morta. Ma, stranamente, anche per il fauno e il cane che l’aspetta invano. Tutto ciò è stato dipinto a olio su tavola di legno di pioppo, fra il 1495 e il 1500, a Firenze.
Dici Firenze in quegli anni e pensi a Botticelli, Filippino Lippi, o Leonardo da Vinci, sulla via del ritorno dopo la caduta di Ludovico il Moro, o addirittura a Michelangelo, appena partito dopo aver già meravigliato tutti. Invece il pittore di questo capolavoro non è altrettanto conosciuto - forse perché delle sue appena 56 opere solo 13 sono ancora in Italia. Si chiamava Piero di Cosimo Ubaldini, abitava vicino santa Maria Novella. Era stimato, ma anche criticato per il carattere, la solitudine, la stravaganza. Era un tipo ‘fantastico’. Per imporsi, un pittore doveva lavorare per i Medici, per i signori o per il Papa, meglio se in luoghi pubblici, dove le sue opere fossero viste, discusse, imitate. Lui invece lavorò per il papa solo quando era apprendista nella bottega di Cosimo Rosselli, e per il resto lavorò per le confraternite della sua città, per mercanti di lana, banchieri e raffinatissimi gentiluomini che gli chiedevano spalliere e cassoni destinati a decorare le loro camere da letto. Un altro pittore li avrebbe dipinti in fretta, e per far soldi, o li avrebbe delegati ai suoi assistenti, e si sarebbe concentrato sulle pale d’altare e i ritratti dei papi. Non Piero di Cosimo.

A quelle spalliere, destinate a sparire nelle stanze segrete dei palazzi, viste solo dai padroni di casa e dai loro amici, dedicò le invenzioni più originali e tutto il suo singolare talento.
Un pittore che fa questa scelta, a Firenze - mentre il sinistro frate Savonarola instaura la teocrazia, tuona contro il vizio, il lusso, i libri profani, e brucia in piazza sui roghi delle vanità i cassoni, gli specchi, le carte da gioco, i ritratti immodesti e quadri come questo - a me sembra degno di qualcosa di più del rispetto ironico che gli riservarono i contemporanei e i posteri. I quali gli riconobbero il merito di aver formato i migliori artisti della generazione successiva (Andrea del Sarto, Jacopo Pontormo). Ma trovavano troppo eccentrici i suoi soggetti e i suoi modi: ha dovuto accontentarsi dell’ammirazione dei romantici, dei surrealisti e di noi nati secoli dopo.
Dunque questa incantevole opera era una favola (cioè una scena mitologica) destinata a una camera da letto. Ad ammonire o educare gli sposi, forse. Ma qual era il suo messaggio? Che cosa è accaduto, e chi sono la bella e le bestie? Non lo sappiamo. L’immagine conserva il suo ambiguo mistero. La tradizione riconosce nella fanciulla Procri, protagonista delle Metamorfosi di Ovidio, e di una favola di Niccolò da Correggio recitata per le nozze di una Este (la sua tragica storia d’amore in seguito piacque a Shakespeare). La vicenda è complessa, e mi perdonerete se la riassumo. Innamorata, ricambiata, di Cefalo, Procri è vittima della gelosia del compagno e della propria. I due si lasciano, e Procri, sobillata da un fauno che le insinua il sospetto di un tradimento, si ritira nella foresta, in compagnia del suo cane Lelape, finché Cefalo, eccellente cacciatore, scambiandola per selvaggina, la uccide. Piero di Cosimo però manipola la fonte, altera la cronologia, elimina Cefalo: insomma reinventa la storia, e la trasforma in una elegiaca meditazione sulla fragilità della vita. Degli uomini, dei fauni, e degli animali - tutti dipinti con la stessa democratica attenzione e la stessa cura. Per capire quanto era rivoluzionario Piero di Cosimo, bisogna ricordare che i suoi contemporanei ritenevano i fauni dei grotteschi mostri di natura, dal sesso priapico perennemente rizzato, e i cani esseri privi di anima razionale, come tutti gli animali (e anche gli Indiani, appena scoperti da Colombo). Per lui, invece, uomini, mostri e cani sono segnati dallo stesso dolore di vivere.
Osservava con religioso rispetto la natura, le nuvole - perfino lo sputo di un malato sul muro non gli suscitava disgusto, ma lo ispirava. Vasari influenzò il destino dell’arte di Piero di Cosimo dedicandogli una biografia ricca di aneddoti raccolti fra i suoi allievi. Indugia sulla ‘bestialità’ del pittore, che aveva disegnato un intero libro di animali, amava la natura selvaggia e disprezzava la compagnia degli uomini. Apprezza il pittore, deride la persona. Ma è possibile distinguere l’uomo e l’artista? Nel Quattrocento credevano di no: ognuno dipinge se stesso. Io non ho risposta. Ma il pittore che ha dipinto il cane di Procri non era un uomo ‘bestiale’: era un uomo.
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