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 2013  gennaio 27 Domenica calendario

IL CRISTO ACHEROPÌTA DI ROMA


A piazza San Giovanni, a Roma, in un elegante edificio rinascimentale - spesso quinta di manifestazioni sindacali e concerti - c’è uno degli oggetti artistici più enigmatici e impressionanti che siano mai stati creati. Più che vederlo, lo si intuisce: da lontano, per pochi istanti, come un lampo nella penombra. Non lo si dimentica più.

L’oggetto - un dipinto a cera su tela di lino incollato su tavola - si trova su un altare, incapsulato in una lastra d’argento che emette bagliori lunari. Ma non possiamo avvicinarci: una spessa grata ci tiene a distanza. Stiamo sbirciando infatti nella cappella privata del Papa, che contiene i tesori più inestimabili della cristianità: per questo è nota come Sancta Sanctorum. I pellegrini vi giungono doloranti, dopo aver salito sulle ginocchia i 28 gradini della Scala Santa - quella del palazzo pretorio di Ponzio Pilato a Gerusalemme, che Gesù salì il venerdì della Passione e che Elena, madre di Costantino, avrebbe portato a Roma. I curiosi saliti sui loro piedi vi giungono indenni, tuttavia intimiditi dalla scritta sull’architrave: NON C’E’ IN TUTTO IL MONDO LUOGO PIU’ SACRO. Alla fine, quando si viene sospinti via, resta la strabiliante sensazione di essere stati guardati. Ma da chi?

La tavola in realtà è un’icona antichissima, che rappresenta il Santissimo Salvatore, cioè Gesù Cristo Pantocratore. Molte altre icone rappresentano lo stesso soggetto, e nello stesso modo, perché sono immagini del sacro, dunque identiche a se stesse, e non conoscono il tempo. Ma l’icona del Sancta Sanctorum è diversa. Non perché sia miracolosa, accechi i superbi, esaudisca desideri o guarisca malattie, benché pare faccia anche questo. Né perché è il talismano protettore di Roma, senza il quale la città stessa perirebbe. Le cronache raccontano che nel 753 al papa Stefano II bastò mostrarla perché il re longobardo Astolfo togliesse l’assedio. Così per secoli i papi la ostentarono in una processione notturna che attraversava tutta la città. Il popolo si accodava in massa, invocando pietà e protezione contro la peste, la morte, la guerra - il male, insomma. Il Santissimo Salvatore in qualche modo funzionava. Neanche i lanzichenecchi luterani del 1527 riuscirono a rubarla o darle fuoco. Si salvò da terremoti, invasioni, incendi. Però si consumò, quasi si estinse. I balsami con cui gli ungevano i piedi durante le ostensioni corrosero le membra; poi sparirono l’abito e il trono su cui sedeva il Pantocratore. Alla fine del 1100 l’immagine originale non si vedeva quasi più, e fu ridipinta. Con fedeltà. Però il corpo era svanito, e non fu ripristinato.

L’assenza fu coperta con un vestito d’argento, tempestato di gioielli e pietre preziose, un sudario da cui il volto di Cristo emerge perentorio e spettrale, con l’allucinata intensità di una visione.

Si è cercato di stabilire dove è stata dipinta l’icona. A Bisanzio, secondo alcuni studiosi: sarebbe stata strappata dal palazzo imperiale al tempo dell’iconoclastia. Altri sostengono che essendo la tavola di noce, e non di cedro o altro legno orientale, deve essere latina, italiana, romana. In realtà, come sempre quando un’opera appare all’improvviso, il Santissimo Salvatore è un oggetto misterioso, come un meteorite. Ma ha un autore: Dio stesso. Ciò significa l’enigmatica parola di origine greca, Acheropìta (non fatta con la mano), che figura in luogo della paternità dell’opera. Dunque è Dio il pittore di questo ritratto. Insomma, si tratta di un autoritratto. Poiché non è un calco del volto di Gesù (come il Mandilion di Edessa, o il sudario della Veronica), sarebbe il primo autoritratto della storia dell’arte. I pittori italiani e stranieri lo conoscevano. Venivano tutti a Roma. Si sarebbero ricordati della frontalità ieratica e degli occhi immensi di questo uomo-Dio.

Oggi è difficile crederci. Le ricerche scientifiche hanno dimostrato che la pittura è fragile, fatta con normalissimi colori, e databile, come ogni manufatto umano. Al V secolo, non oltre l’inizio del VII. Le ricerche artistiche hanno analizzato la forma e la tipologia dell’immagine - sua volta diventata modello per altre, riproducendosi all’infinito. Più che mostrare come Dio vede se stesso, l’icona acheropìta ci dice come gli uomini dei secoli bui vedevano Cristo: sovrano onnipotente incoronato da un’aureola d’oro, ma anche dolorosamente umano. Forse non imita l’aspetto del Cristo storico, ma il senso della sua presenza sulla terra. Nel congiungersi alla barba, i baffi gli conferiscono un’espressione non trionfante, anzi immensamente triste. Ha gli occhi enormi e vicini, spalancati, assenti eppure penetranti, fissi nella contemplazione di qualcosa al di là del visibile e della materia. Eppure è impossibile sottrarsi alla sensazione che quel dipinto racchiuso in un sarcofago d’argento della misura di un uomo non sia un pezzo di legno inerte. Non siamo noi che guardiamo l’opera, ma è l’opera che guarda noi. Ci segue con lo sguardo, ci giudica. Ci legge dentro. Ed evidentemente è una sensazione diffusa, se un papa del Medioevo preferì coprirla con un velo di seta, perché guardandola le persone venivano colte da tremori, terrore, vertigine come di fronte all’infinito, o a un abisso.
Ogni volta che torno a visitare l’Acheropìta, mi chiedo se il Santissimo Salvatore mi guarda perché è Dio, o perché è una magnifica opera d’arte. E mi ripeto che se un’opera d’arte non diventa presenza - specchio di un pensiero, indelebile emozione, scintilla di un significato del mondo - non è niente..