Melania Mazzucco, la Repubblica 13/1/2013, 13 gennaio 2013
L’ANNUNCIAZIONE DEL BEATO ANGELICO
La cella numero 3, nel corridoio est del convento domenicano di San Marco, a Firenze, è un monolocale con una porta e una finestra. Eppure là dentro, sulla parete, c’ è l’ opera più radicale di uno dei pittori più facili e insieme complessi della storia dell’ arte, che in quarant’ anni di attività fu assai prolifico benché, come ci racconta Vasari, essendo uomo di santa vita non lavorò mai per denaro: frate Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro detto Guidolino - insomma, il Beato Angelico.
In San Marco il Beato Angelico dipinse una cinquantina di opere, anche servendosi di collaboratori, assistenti e seguaci. Le più personali non le trovate però nei corridoi, nei refettori o nelle stanze dei laici, ma nelle celle dei frati. Anche Angelico era frate domenicano. Dipingeva, in sostanza, per se stesso. Per questo quegli affreschi rappresentano un caso rarissimo nella storia dell’ arte - paragonabile a quello di Tintoretto alla Scuola di San Rocco: creati in libertà, con poveri strumenti materiali (pigmenti di origine vegetale, leganti organici, pennelli fatti con peli di animali), rivelano quanto profondo, altissimo e sottile possa essere il pensiero di un artista. La cella numero 3 oggi è bianca e vuota. Forse anche intorno al 1443, quando ci entrò il primo frate. Ci sarà stato un letto, un inginocchiatoio, un braciere, qualche utensile per la vita quotidiana.
Il soggetto dell’ affresco è l’Annunciazione. Beato Angelico ha dipinto almeno 15 Annunciazioni: e una addirittura a pochi metri, nel corridoio del convento. Eppure questa le supera tutte. È nuda, essenziale, spoglia. Ricordate la laconicità enigmatica dei 13 versetti del Vangelo di San Luca? Ebbene, Angelico qui realizza l’ assoluto equivalente della scrittura. La pittura diventa astratta quanto la parola. Si tratta di una trascrizione, non di una descrizione. Angelico non illustra il racconto del Vangelo a un ignorante che non sa leggere; qui la pittura non è la Bibbia dei poveri. I frati domenicani già conoscono le sacre scritture. Angelico può eliminare tutti i dettagli narrativi e naturalistici. Due colonne seminascoste dalle ali dell’ angelo e gli archi della volta sono tutto ciò che resta dell’ architettura. Lo spazio è indeterminato e ossessivo, come in un sogno. Né un esterno né un interno: una cavità intima, che evoca la cella reale, e il reale chiostro del convento. Sulla sinistra, un rettangolo verde allude al giardino della casa di Maria, a Nazareth, o al giardino dell’ Eden da cui fu espulso Adamo (poiché l’ Annunciazione avvia la redenzione dell’ umanità dal peccato di Adamo). Anche il tempo è astratto. L’ evento infatti non accade al momento del racconto di san Luca: è il suo ricordo. Ciò dimostra la presenza anacronistica di un testimone vissuto secoli dopo, il martire Pietro da Verona dalla testa sanguinante. Indossa il saio bianco e nero dell’ ordine domenicano, lo stesso del pittore e del frate della cella n. 3 cui l’ opera è destinata. La scena è come una visione: l’ immagine mentale dell’ Annunciazione. Cioè Pietro (il frate, il pittore) sta meditando sul mistero centrale del cristianesimo: l’ Incarnazione di Dio nel ventre di una donna. La Vergine e l’ angelo appaiono, come emergendo dal bianco dell’ intonaco. Sottili, diafani, inverosimili. Non parlano. Il pittore presuppone il dialogo del Vangelo - lo allude.
L’ economia dei segni è totale, i colori sono pochissimi.
Rosso il sangue sul cranio del martire e lo spirito santo che arde in forma di fiammella; verde il prato immaginario e le piume delle ali dell’ angelo; legno l’ umile panchetto di Maria; oro le aureole e i capelli; rosa l’ abito di Gabriele e di Maria. Ma è il bianco che domina. Bianco il libro, bianco il pavimento, bianco il soffitto, bianco il muro sullo sfondo. Ha lo stesso colore dell’ intonaco della cella che circonda il dipinto, e del dipinto stesso prima che il pittore vi disegnasse e colorisse le figure. Il focus dell’ affresco infattiè proprio quella parete bianca, abbacinante, fra l’ angelo e Maria. È uno spazio vuoto, come una pagina, che attira l’ occhio e dunque il pensiero: spazio di contemplazione, rivelazione. Ma Maria non deve avere il manto blu, come il cielo stellato? Forse Angelico non ha avuto il tempo di finire il dipinto: fu chiamato dal papa, partì per Roma. Lasciò l’ abito di Maria allo stato di preparazione. Eppure in un’ opera rarefatta come questa ogni scelta è indizio di un significato. Maria e l’ angelo si somigliano e sono speculari anche nei gesti - nell’ istante in cui il messaggero si inchina a una mortale, e la donna riceve lo Spirito Santo dentro di sé. Ma non sono identici. L’ angelo rivela la presenza di Dio, che è luce - e irradia tutto intorno, batte sulla parete di fondo e illumina ogni cosa. L’ angelo non ha corpo. Anche Maria ha perso consistenza. Guardate la sua strana posizione, il panneggio quasi concavo del vestito là dove dovrebbe esserci l’ osso del ginocchio. Scelta da Dio, dopo avergli detto di sì, sarà mediatrice e salvatrice dell’ umanità. Però resta una donna, ed è nel suo corpo reale che tutto si compie. Così la luce la investe, ma non la attraversa. Guardate la parete alle sue spalle. C’ è un’ ombra. Maria fa ombra. All’ Angelico ormai basta una pennellata per dire che cosa distingue gli angeli dagli esseri mortali. Lui, invece, ormai veniva considerato un angelo. Già pochi anni dopo la morte lo chiamavano "pittore angelico" (proprio nel senso che, come gli angeli, vedeva Dio), e beato. Dal 1982, per volontà di Giovanni Paolo II, frate Giovanni è beato davvero.