Vincenzo Trione, Corriere della Sera 27/08/2013, 27 agosto 2013
DANTO, L’ARTE E’ UN SOGNO DA SVEGLI
Nell’estate del 2012 abbiamo incontrato Arthur C. Danto nella sua casa di New York, a pochi passi dalla Columbia University, dove ha insegnato per molti anni. Ci ha parlato del libro al quale stava lavorando con entusiasmo e inquietudine: la felicità per un lavoro quasi completato e la paura di non avere la forza per scrivere altro.
Poi, negli ultimi mesi, Danto non è stato bene. Intanto, da qualche settimana, è stato pubblicato «What Art Is», Che cos’è l’arte. È un piccolo trattato, che ha il valore di un testamento intellettuale «definitivo»: sintesi e approdo di un lungo itinerario. Si apre e si chiude con capitoli nei quali l’estetologo statunitense definisce l’idea stessa di arte, in una prospettiva anti-platonica. I capitoli centrali investigano su argomenti come il restauro, il corpo e il rapporto pittura-fotografia.
Danto disegna un’originale cartografia della modernità: l’artworld. In un’articolata trama teorica, collega figure e momenti diversi, suggerendo un gioco di corrispondenze. Elabora un sistema scandito da dialoghi inattesi tra artisti e filosofi: Duchamp e Platone, Warhol e Hegel, Hammons e Kant. Siamo invitati a compiere scorribande attraverso la storia, nel corso delle quali ci imbattiamo in Michelangelo e Picasso, in Piero della Francesca e Cage.
Ritornando su tematiche già affrontate in saggi precedenti, Danto propone un’ontologia dell’arte. In polemica con i critici formalisti, ricorre alla metodologia dell’«essenzialismo», per far emergere «un insieme di comuni proprietà visuali»: i «caratteri universali» che accomunano creazioni lontane. Mira a individuare il common ground all’interno del quale vanno a disporsi opere inventate in epoche e in contesti diversi.
Quel «terreno comune» non è costituito dalla drammaturgia delle linee e dei colori disposti sulla superficie di un dipinto, ma dal «significato incarnato». Impegnato a edificare un’«estetica dei significati», Danto scrive: «Dobbiamo chiederci che cosa significhi l’immagine prima eventualmente di pensare al pigmento». L’opera d’arte, per lui, non è sapienza tecnico-compositiva, ma rimodulazione di concetti, esercizio speculativo, pratica riflessiva. A differenza della cosa reale, è sempre «a proposito di qualcosa».
L’embodied meaning non può essere colto dall’occhio, ma solo dal «settimo senso». Non abita la superficie, ma sta dietro l’immagine. Coincide con la volontà dell’artista: con le sue intenzioni realizzate. Allude a contenuti, che possono essere declinati in media diversi. Infine, rinvia al «mondo dei valori simbolici».
Basta confrontare un oggetto commerciale (la Brillo Box di Harvey) e un’opera d’arte (le «Brillo Box» di Warhol). All’apparenza, le differenze visive sono inesistenti. Poi, ci si accorge che la Brillo di Warhol è più grande del prodotto industriale, è di un materiale più durevole e non contiene niente. Ma, soprattutto, possiede una segreta qualità simbolica. Ed è espressione dello Spirito assoluto. E di altro.
Oltre ai significati e alle intenzioni, infatti, c’è altro. È quello che Danto chiama il wakeful dream. L’opera d’arte, secondo lui, si dà come sogno vigile: a occhi aperti, collettivo. È un’«apparenza di realtà», in cui il pubblico ha la possibilità di percepire le medesime visioni provate dagli artisti: «I sogni vigili hanno il vantaggio, rispetto ai sogni che appaiono nel sonno, di essere condivisi».
Siamo dinanzi a un discorso suggestivo: anche se d’impronta specificamente teoretica. Danto, in alcuni passaggi, rischia di leggere l’arte solo come dimostrazione di alcune idee filosofiche. Certo, guardare quadri, sculture o xerigrafie come contenitori di «problemi» è un’avventura stimolante. Ma non sempre riesce a coglierne l’autentica qualità linguistica. Perché un’opera racchiude contenuti e simboli. Ma, questo, è solo il sottotesto: come il fondale di una messa in scena più complessa. La forza del testo è data dalla capacità di un artista nell’organizzare le forme, nel comporre la sua sintassi, nel far funzionare le diverse parti del suo congegno a orologeria, nella consapevolezza che la sua sarà sempre un’architettura impossibile da ingabbiare dentro le regole di un controllo imperativo.
A volte, il Danto di «What Art Is» sembra comportarsi come quegli studiosi di cui ha parlato Daniel Arasse. Essi tendono a osservare la pittura in una maniera che non «permette di vedere ciò che il pittore e il quadro ti mostrano». Si affidano a schermi fatti di «citazioni e riferimenti esterni». Spesso, si nascondono dietro «una sorta di filtro solare» che protegge dal «bagliore dell’opera».
Vincenzo Trione