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 2013  agosto 27 Martedì calendario

«TRADUCEVO GLI HARMONY. POI NEL ’93 HO CAPITO COS’E’ L’ARTE»

L’estate del 1993 rappresenta per Massimiliano Gioni, curatore della Biennale d’arte di Venezia 2013, la tipica stagione che cambia e orienta un’esistenza: «Ho visto recentemente la mostra dedicata al 1993 che ha appena chiuso al New Museum e ho capito quanto quell’anno fosse non solo essenziale per comprendere gli anni Novanta ma come già contenesse le spinte e le radici di questo nuovo secolo...».
Nel 1993 Gioni ha vent’anni, è iscritto alla facoltà di Storia dell’arte a Bologna, è tornato da un anno dal Canada dove ha frequentato a Vancouver i corsi degli United World Colleges: «Ricordo il rientro in Italia, nella mia Busto Arsizio. Un panorama cambiato da Tangentopoli, un clima di grande rinnovamento». Poi arriva l’estate del 1993 e avvengono due fatti, estremamente importanti per la vita del futuro curatore della Biennale d’arte 2013: «Ricordo con precisione, e ancora con angoscia, la notte delle bombe del 27 luglio. Nella mia mente significa soprattutto la strage di via Palestro a Milano, i cinque morti, il danneggiamento del Pac, il Padiglione di arte contemporanea... Studiavo storia dell’arte, per me fu sconvolgente. Morì un immigrato marocchino che dormiva su una panchina. Quella morte fu il simbolo dell’imminente cambiamento legato all’immigrazione».
Poi, nel giro di pochi minuti, le bombe romane di San Giovanni e di San Giorgio al Velabro: «Eravamo tutti sconvolti, noi ragazzi. Anni dopo sapemmo che c’era di mezzo Cosa Nostra ma percepimmo chiaramente la sensazione di un attacco frontale. Di un terrorismo forte e oscuro. Senza fare paragoni, ma l’impressione più vicina che ho provato è stata quando ho assistito all’attacco alle Torri Gemelle l’11 settembre 2001». La notte tra il 27 e il 28 luglio rappresenta insomma per Gioni la fine di una speranza, tipica dei vent’anni: «Eravamo certi che le cose sarebbero cambiate in meglio, invece ci ritrovammo con le macerie e la paura. Anzi, il terrore».
L’altro fatto che nel 1993 cambia la vita di Gioni è la visita alla Biennale d’arte di Venezia curata da Achille Bonito Oliva: «Achille, con la sua mostra, ha avuto il grande merito di anticipare il tema della globalizzazione. In quell’anno nessuno sa cosa sarebbe stata la posta elettronica, si inventa il primo browser grafico per navigare su Internet, si presenta sulla scena il primo blog. Eppure l’arte anticipa già la cultura digitale e analizza gli sconvolgimenti del mondo». Il ricordo di Gioni va ai nomi: «Il padiglione della Germania vince il Premio dei Paesi... il pavimento divelto da Hans Haacke per far camminare i visitatori sulle "macerie del paese". Lo stesso succede al padiglione russo, trasformato da Ilja Kabakov in un luogo abbandonato, pieno di rottami. Richard Hamilton, nel padiglione britannico, parla della questione irlandese. Ma nel 1993 debutta anche Maurizio Cattelan con "Lavorare è un brutto mestiere". Lo stesso avviene per Rudolf Stingel. È l’anno in cui Matthew Barney riceve il premio Europa 2000 per il miglior giovane artista. Espongono Damien Hirst e Paul McCarthy».
Cosa deve ad Achille Bonito Oliva? «Quella mostra ha cambiato un po’ tutto e per sempre. Uno shock, una rivelazione. Soprattutto grazie alla "Sezione Aperto" la Biennale guardò ad altri mondi proprio per capirli e scoprirli in vista del nuovo Secolo. Tra i dieci curatori c’era Francesco Bonami, che poi curerà la Biennale a sua volta nel 2003. Seguendo le indicazioni ideali di Bonito Oliva, in quel 2003 Bonami affida altre sezioni a giovani curatori e mi chiama per la sezione "La zona". Seguendo questo filone numerologico, dieci anni dopo sarebbe toccato a me guidare la Biennale». Già sapeva che avrebbe poi fatto il lavoro che ha fatto? «Assolutamente no, ero a Venezia dopo aver letto un articolo sulla rivista Flash art, dove poi avrei lavorato. Ai tempi mi mantenevo traducendo dall’inglese in italiano i romanzi della collana Harmony...».
Ora siamo nell’estate 2013. Soddisfatto della sua Biennale, del suo «Palazzo Enciclopedico»? «Troppo presto per un bilancio. C’è ancora molto da fare: altro pubblico, gli studenti, gli incontri. So però che ho imparato molto dalla mostra di Achille, così come da quelle di Bonami, di Harald Szeeman, di Jean Clair. Spero di essere riuscito nel mio intento. Cioè interrogarsi, anche nel dialogo tra artisti professionisti e dilettanti più o meno celebri, su cosa sia davvero l’arte oggi. E su chi abbia oggi il diritto di esserci o non esserci, nel mondo dell’arte...».
Paolo Conti