Francesca Marino, Il Messaggero 27/8/2013, 27 agosto 2013
INDIA, IL MIRACOLO È FINITO
Collane di cipolle al collo di dimostranti per le strade di Calcutta, anelli o braccialetti di cipolle legati al polso dei fratelli per la festa di Rakhsha Bhandan o regalati in occasione di anniversari di matrimonio tra vecchi sposi. Non è l’ultima, curiosa moda indiana ma un modo pittoresco e pacifico di protestare contro lo spaventoso aumento dei prezzi dell’umile vegetale sul mercato indiano: ottanta rupie al chilo. Un’enormità se si pensa che un operaio guadagna tra le cento e le duecento rupie al giorno, e che la cipolla è alla base di praticamente tutti i piatti indiani. Perché se il calo della rupia affligge i ricchi e i potenti, quello che incide sui tre quarti dell’India, l’India che del boom e del suo tramonto non si è mai accorta, è il prezzo dei beni di prima necessità. Riso, cipolle, patate negli ultimi due anni hanno raddoppiato o triplicato il loro prezzo.
IL CHAI ALLE STELLE
Tra i banchi di frutta e verdura di Lake Market, sempre a Calcutta, la gente è poca e compra sempre meno. Al mercato del pesce, a pochi passi di distanza, ci sono più venditori che compratori: l’hilsa, onore e vanto della cucina bengali, si vende ormai a carati come l’oro ed è diventato introvabile. Anche i polli sono diventati merce pregiata: quattrocento rupie al chilo, fuori dalla portata anche della piccola borghesia. Tra poco arriverà la stagione delle feste, e la crisi che comincia a mordere duramente la più grande democrazia del mondo sarà ancora più evidente. Così come la rabbia della gente, che ha di recente subissato di insulti un politico locale per aver dichiarato che «a Delhi o a Calcutta si può ancora avere un pasto completo per 20 rupie» quando il chai, l’umile tè venduto per strada misto a latte e zucchero, costa ormai ben cinque rupie. Un raddoppio del 200% in meno di due anni.
L’India della gente comune sta pagando e pagherà un prezzo altissimo per il miracolo economico indiano che sembra ormai essere scoppiato come la classica bolla di sapone tra le mani di politici ed economisti. La bufera che si è abbattuta sul miracolo economico indiano ha colto più o meno tutti di sorpresa, nonostante ormai da tempo le maggiori agenzie di rating internazionale esprimessero preoccupazione per la situazione economica indiana. Kaushik Basu (primo consigliere del ministero delle Finanze, professore emerito alla Cornell University ed ex-commentatore della Bbc) si è affannato a ripetere per mesi che «le agenzie di rating non capiscono la struttura dell’economia indiana», che la situazione non era affatto drammatica come la si dipingeva e che dal prossimo ottobre è anzi prevista una ripresa. Sarà, ma per il momento non ci crede più nessuno. Le banche cercano ancora di incrementare i consumi offrendo carte di debito a tappeto, si continua a costruire a ritmo sfrenato, ma i salariati e gli impiegati statali, lo zoccolo duro dell’economia del boom, cominciano a vedersela brutta.
I numeri parlano chiaro. Il dato più rilevante è il rallentamento dell’indice percentuale di crescita economica: uno striminzito 5.3%. Il peggior risultato degli ultimi nove anni. Ma non è tutto. Il deficit fiscale è passato nell’ultimo anno dal 4.8 al 5.9% del Prodotto interno lordo (Pil), mentre l’indebitamento pubblico sfiora la vetta del 70% del Pil. Il settore degli investimenti privati ha rallentato di conseguenza, la rupia è in caduta libera, il tasso di inflazione ha toccato lo scorso aprile il tetto record del 7.2%, il tasso più alto tra i paesi che appartengono al Bric. Ciliegina sulla torta, il tasso di disoccupazione sfiora ormai il 10%: che significa, in un paese in cui il miliardo di persone è stato superato ormai da anni e in cui una buona fetta della popolazione ha meno di venticinque anni, centinaia di migliaia di giovani senza concrete aspettative.
LA METÀ IN NERO
Secondo gli esperti, la crisi è correlata soltanto in minima parte alla crisi economica mondiale e dipende invece da problemi strutturali interni. Colpa, sempre secondo Basu, della mancanza di riforme. Ma anche del buco nero creato dalla corruzione e dall’economia sommersa, sostiene M. R. Kelkar che è un rispettato manager e consulente di multinazionali. «Una buona metà delle transazioni commerciali si svolge in contanti. Montagne di banconote di provenienza illecita che passano di mano ogni giorno senza lasciare traccia». Il volume dell’economia in nero indiana sfiora inoltre il cinquanta per cento del Pil ufficiale. I politici, però, esitano a mettere in atto riforme impopolari ma necessarie in vista delle elezioni del 2014 e preferiscono rifugiarsi dietro a misure populistiche ad alto ritorno di immagine. In fondo, come sosteneva l’economista inglese John Maynard Keynes, «nel lungo periodo siamo tutti morti». O, facendo le riforme, perdiamo quasi sicuramente le elezioni.