Sara Ficoncelli L’Espresso 25/11/2012, 25 novembre 2012
Uomini del sud, senza cultura e pazzi: di cose false, quando si parla di violenza di genere, se ne dicono tante
Uomini del sud, senza cultura e pazzi: di cose false, quando si parla di violenza di genere, se ne dicono tante. I luoghi comuni si sprecano. Il fenomeno riguarda tutte le classi sociali: impiegati, professionisti, ricchi e poveri. L’ignoranza non c’entra, così come i fattori economici. Una situazione che, anzi, si riscontra più frequentemente nelle famiglie in cui la donna è emancipata o cerca di emanciparsi ROMA - Molti pensano che gli uomini che maltrattano e uccidono le donne siano malati, pazzi, ed è molto diffusa l’opinione che la maggior parte dei reati accada al sud, nelle zone più arretrate del Paese. Nell’opinione comune i protagonisti sono persone con scarse risorse culturali ed economiche, e molti sono convinti che gli "stranieri" maltrattino mogli e fidanzate più degli italiani. Di cose false, quando si parla di violenza di genere, se ne pensano e dicono tante, in modo direttamente proporzionale alla frequenza con cui se ne parla ultimamente. Ma basta confrontarsi con chi lavora da anni in questo campo per farsi un’idea molto diversa del fenomeno. Il dato che più colpisce è che si tratta un problema culturale che non interessa solo l’Italia ma tutto il mondo, in maniera spaventosamente uniforme. Nel 75% dei casi gli autori sono italiani, nell’80% si tratta di uomini del tutto "normali", senza alcun disturbo mentale. La violenza, spiegano gli psicologi del Cam di Firenze, Centro Ascolto Maltrattanti, è una scelta. La maggior parte dei reati avviene nelle regioni del nord Italia, dove la donna cerca più spesso di emanciparsi, e a comportarsi in modo violento sono uomini di tutte le classi sociali e i livelli culturali, dal medico all’infermiere, dall’idraulico all’avvocato. In Italia sono quasi 14.000 le donne che si rivolgono ogni anno alle 60 associazioni specializzate aderenti a D. i. Re - Donne in Rete contro la Violenza ma non tutti i centri possono offrire ospitalità; quelli aderenti a D. i. Re con casa rifugio sono 31, appena 19 quelli con un progetto contro la prostituzione coatta. Sul femminicidio non esistono dati ufficiali ma si stima che ogni anno in Italia vengono uccise oltre 120 donne e nella maggior parte dei casi tra le mura domestiche, per mano di partners o ex partners. La domanda che molti si fanno è: si tratta di un fenomeno in aumento? Difficile dirlo, mancando dati certi (l’ultima ricerca fatta dall’Istat risale al 2007). Chi lavora con le donne, comunque, dice di no. Secondo la maggior parte delle operatrici, i numeri sui casi di maltrattamento e omicidio sono sempre gli stessi da anni e l’unica differenza è che adesso se ne parla di più. A peggiorare negli ultimi 20 anni è stata, semmai, la concezione della donna da parte della società. Riconoscere la violenza. Berit Ovsttun è norvegese ma vive da più di vent’anni in Italia ed è la responsabile del Telefono Donna-Centro Pari Opportunità della Regione Umbria, che ogni anno assiste dalle 400 alle 500 donne tra Terni e Perugia. In Italia come in Norvegia, racconta, i maltrattanti si comportano in maniera molto simile. Considerano la compagna un qualcosa di proprietà, ne sono gelosi al punto da impedirle progressivamente di uscire, di avere una propria vita sociale, spesso la inducono a lasciare il lavoro per badare ai figli, la umiliano verbalmente fino a distruggere la sua autostima. A questi comportamenti, poi, alternano periodi di estrema docilità e tranquillità. Questo fatto crea confusione e sensi di colpa nella donna ed è questa la ragione per cui le donne portano avanti relazioni violente così a lungo, rivolgendosi mediamente ai centri antiviolenza dopo 7 anni di maltrattamenti. Lo scopo per tutti i maltrattanti è lo stesso: ridurre la donna in una condizione di isolamento e quindi di dipendenza, sia economica che psicologica. La soggezione psicologica è tale che molte subiscono sistematicamente anche violenza sessuale, ma accettano la cosa come normale. "Succede anche che sia proprio la donna a sminuire il comportamento del compagno, a giustificarlo. Riconoscere la violenza, diventare consapevoli, guardare in faccia la realtà, capire di aver "scelto" l’uomo sbagliato come marito e padre per i propri figli è una cosa molto dolorosa e durissima da accettare. Molte non ci riescono e preferiscono raccontarsi bugie e girare la testa dall’altra parte". I maltrattanti, racconta la responsabile, sono per la maggior parte uomini "insospettabili" e appartengono a tutti i ceti sociali: liberi professionisti, intellettuali, operai, impiegati, spesso capacissimi di stare in mezzo alla gente. "Riescono anche a ingannare gli operatori della rete di sostegno", spiega. Il riconoscimento della violenza da parte della donna è dunque il primo, fondamentale step per uscirne, ed è un processo talmente difficile che il Cesvis, Centro studi e ricerche per la tutela delle vittime di reato e la valutazione del rischio di recidiva dalla violenza, ha messo online, in collaborazione con l’Università di Napoli e Differenza Donna, un questionario per capire se nella relazione ci sono segni di maltrattamento. Chiedere aiuto a un centro specializzato. I centri che si occupano di violenza sulle donne in Italia sono circa 120, tra realtà istituzionali e associazioni aderenti a D. i. Re. Si tratta di luoghi gestiti da sole donne, nati con lo scopo esclusivo di aiutarle ad uscire dalla violenza attraverso percorsi individualizzati, affiancate da operatrici specializzate. L’attività che svolgono è ben precisa e nasce dal convincimento che la violenza contro le donne è un fatto culturale tipico di una società patriarcale, un fenomeno che investe il piano delle relazioni tra i sessi e che quindi va affrontato con una particolare attenzione e un approccio di genere. Purtroppo, spiegano le operatrici, molte donne non sanno nemmeno che queste realtà esistono. A Roma l’associazione Differenza Donna, attiva dall’89, gestisce cinque centri, dispone di 22 posti letto in case-rifugio e segue circa 2000 casi l’anno. Stando ai loro dati, solo il 10% delle maltrattate arriva a denunciare il compagno. "Ospitiamo persone in grave pericolo di vita - spiega la psicologa Rosalba Taddeini - che rischiano di tornare a casa e venire uccise. Non potrebbero mai farcela da sole. I centri sono dei laboratori sociali". Con una metodologia "da donna a donna", le operatrici delle realtà aderenti a D. i. Re. ascoltano la persona maltrattata, la aiutano a trovare una casa, un lavoro e a rifarsi una vita. "Molte - continua la Taddeini - arrivano qui convinte di essere malate. La nostra equipe di esperti spiega loro che non è così e che la loro condizione è invece comune a miliardi di donne in tutto il mondo e a milioni in Italia". La presidente Emanuela Moroli spiega che non si tratta di luoghi di assistenza ma di sostegno. "Noi restituiamo alla donna consapevolezza, diritti, dignità. La aiutiamo a dare un nome alla violenza, a riconoscerla. Secondo i dati della rete europea antiviolenza Wave - Women Against Violence in Europe, dovrebbe esserci un centro ogni diecimila abitanti. In Italia ne abbiamo uno ogni cinque milioni". "I centri antiviolenza negli anni hanno sviluppato una metodologia di accoglienza specializzata - spiega Titti Carrano, presidentessa di D. i. re - e il nostro approccio inquadra ogni violenza in un’ottica di genere. È fondamentale parlare con le donne, farle sentire accolte e non diverse". La cooperativa sociale Cerchi d’acqua di Milano, che solo tra il 2010 e il 2011 ha incontrato più di 7000 donne, per aiutarle organizza anche gruppi di auto-aiuto. "Le donne devono parlare tra loro e confrontarsi - spiega una delle responsabili, Daniela Lagomarsini - l’elaborazione comincia proprio quando ci si rende conto di non essere sole". Anche la metodologia dei colloqui individuali è diversa rispetto a quelli psicologici o legali. "Si deve "accogliere" il problema in modo diverso da come farebbe un avvocato - spiega Manuela Ulivi, avvocata e presidentessa del centro accoglienza per donne maltrattate di Milano - Noi non diamo consigli ma offriamo una panoramica, cerchiamo di capire quali sono le richieste della donna e quali le sue risorse, anche economiche. Spesso la mancanza di autonomia economica è il principale ostacolo da superare". Cercare un’indipendenza economica. Una volta focalizzato il problema e dopo aver chiesto l’aiuto a un centro specializzato, la donna comincia a confrontarsi con gli aspetti più strettamente pragmatici. E il problema principale, spesso, è quello economico. Francesca Guarino, responsabile della casa per donne maltrattante di Casal di Principe "Lorena", nata quest’anno grazie al riutilizzo dei beni confiscati alla camorra, spiega che il suo centro assiste centinaia di donne l’anno, ospitandone mediamente 20 ogni sei mesi. A cercare accoglienza sono soprattutto quelle che non hanno un posto dove andare, o che hanno bisogno di un luogo protetto dove l’ex compagno non posso trovarle. Malgrado tutte queste difficoltà, però, molte trovano la forza per andare fino in fondo e liberarsi. "Se a una donna dai delle alternative, se la aiuti a trovare un lavoro e ad essere indipendente, non tornerà indietro. E’ questo ciò che cerchiamo di fare". Elisabetta Riccardi, psicoterapeuta dell’associazione "Le kassandre" di Ponticelli, quartiere industriale nella periferia est di Napoli, lavora in un luogo in cui la violenza è considerata una modalità relazionale e quindi spesso non viene né riconosciuta né denunciata. Qui le difficoltà economiche sono tali che molte donne preferiscono subire i maltrattamenti che dormire per strada. L’associazione gestisce, in collaborazione con lo sportello Lilith di San Sebastiano al Vesuvio, circa 60 casi l’anno, un record per una zona come questa, dove le donne sono abituate a convivere con la violenza. Quasi sempre a chiedere aiuto sono madri che non lavorano o sono impegnate in attività legate alla camorra, molte hanno un marito detenuto e i periodi che lui trascorre in carcere sono l’unica boccata d’ossigeno. In una situazione del genere denunciare significa rischiare la vita e il cammino verso l’indipendenza economica è più difficile. "Noi le aiutiamo a trovare un lavoro - spiega - ma chiaramente il periodo di crisi non aiuta". Qualunque procedimento legale, poi, ha dei costi, sia economici che psicologici. "Anche col patrocinio gratuito - spiega l’avvocata Marianna Hasson - le donne devono rassegnarsi al fatto che i tempi sono lunghi. Molte non ce la fanno a mantenersi durante l’iter, non sanno dove andare. Per una separazione giudiziale possono volerci anche due, tre anni". Nonostante questo, spiegano le operatrici, quasi tutte le donne che seguono un percorso mirato con un centro di aiuto riescono alla fine a raggiungere l’indipendenza e a trovare un impiego. Uscire dall’isolamento. Ricominciare a vivere da sole dopo aver passato anni con l’uomo che in molti casi si ama ancora e col quale si condividono dei figli non è facile. Il senso di fallimento è grande e la voglia di tenere in piedi la famiglia a tutti i costi è l’altro grande input che spinge le donne a sopportare. Molte maltrattate, inoltre, si trovano in una condizione di isolamento totale in cui tutto ciò che hanno ruota intorno ai figli e al compagno. Questo perché spesso, durante gli anni di convivenza o di matrimonio, la donna viene spinta a rinunciare al lavoro e a dedicarsi quasi esclusivamente alla famiglia, riducendo al minimo i contatti con parenti e amici. La cooperativa Eva di Maddaloni (CE) www. cooperativaeva. it gestisce quattro centri antiviolenza in Campania. Le donne che si rivolgono a loro ogni anno sono circa 800, hanno mediamente fra i 35 e i 45 anni e sono prevalentemente diplomate o laureate. Non certo soggetti privi di risorse. Eppure, molte hanno alle spalle storie di maltrattamenti atroci, durati a volte anche tutta la vita. "Tutte quelle che subiscono violenza si ribellano - spiega la presidente Lella Palladino - ma solo una su tre riesce a liberarsi. I meccanismi psicologici sono sempre gli stessi: quasi sempre in una condizione di inferiorità economica, sono costrette a vivere in funzione della famiglia, non hanno autonomia di movimento e a livello decisionale dipendono dal marito. Il primo consiglio che diamo è quindi quello di uscire dall’isolamento, rompere questa campana di vetro, cominciare a parlare della propria situazione con qualcuno, anche solo con altre donne". In molti casi, una donna in condizione di fragilità psicologica subisce l’ulteriore carico del giudizio dei familiari, che sminuiscono la sua condizione di sofferenza con frasi come "Te lo sei sposato e te lo tieni", e delle forze dell’ordine, che spesso scoraggiano quelle che vanno in questura a denunciare. "Signora, è il padre dei suoi figli: ci pensi bene". Se una donna maltrattata finisce al pronto soccorso, è probabile che a scortala ci sia il marito e che lei giustifichi il livido dichiarando di essere caduta dalle scale. Per aiutarle a uscire dall’isolamento è dunque importante avvicinarsi loro con cautela e istruire in modo adeguato forze dell’ordine e operatori sociali. Realtà importanti come l’ospedale San Camillo-Forlanini di Roma, attraversato ogni giorno da migliaia di persone, organizzano corsi di formazione che insegnano a polizia, carabinieri e personale sanitario a intercettare i segni di violenza e a rapportarsi nel modo giusto con le donne maltrattate. All’interno della struttura è stato anche creato uno Sportello Donna, gestito dalla cooperativa BeeFree (www. befreecooperativa. org), intelligentemente collocato all’interno della sala d’attesa del pronto soccorso, con una doppia entrata che permette alle donne di avvicinarsi o essere avvicinata dalle operatrici senza che il marito se ne accorga. Autostima e senso di colpa. Il centro donna Lilith di Latina (www. centrodonnalilith. it), nato nel 1986 come telefono rosa e oggi responsabile anche di una casa-rifugio, riceve in media tre richieste d’aiuto al giorno e dagli inizi del 2012 ha già assistito 96 casi. "L’accoglienza telefonica è delicatissima: devi creare un aggancio - spiega la responsabile del gruppo di accoglienza, Luana Conte - e, durante il primo colloquio, cercare di guadagnarti la loro fiducia, rielaborando con loro cosa è successo. Quasi tutte hanno perso l’autostima e sono convinte di meritare ciò che subiscono, traumatizzate da frasi come "Ti ho picchiata perché mi hai hai costretto a farlo". Ci raccontano di violenze fisiche e psicologiche con naturalezza. Molte passano da una relazione violenta all’altra. Sono convinte di non essere capaci di andare avanti da sole, di vivere senza il compagno. A volte vengono due o tre volte perché hanno bisogno di sfogarsi e, quando capiscono che l’unico modo per liberarsi è lavorare su sé stesse, non le vediamo più. In realtà non basta lasciare un uomo per risolvere il problema. Una donna deve recuperare l’autostima personale, capire di potercela fare da sola. E’ un percorso psicologico che può durare anni. Solo alla fine si è libere". Il senso di colpa che consegue al desiderio di fuga è costante, soprattutto se di mezzo ci sono i figli. "Le donne perdono l’autostima in quanto vestali di modelli maschili - spiega la presidentessa Patrizia Amodio - perché purtroppo non esiste un modello neutro di società ma solo uno patriarcale". Ricominciare da capo. In tutta Italia, per fortuna, le storie di donne riuscite a liberarsi dai maltrattamenti sono migliaia. Giulia di Perugia è fuggita da una escalation di violenza cominciata prima con una relazione normalissima e poi finita con botte e minacce di morte. Pensava "questa persona la salverò" ma quando ha cominciato a temere per la vita propria e della figlia se ne è andata di casa, superando, con l’aiuto delle operatrici, anni di terrore e stalking. Ora si è laureata e fa un lavoro che le piace. Carla di Torino, vittima di stalking da parte dell’ex marito, che un giorno si è presentato in casa dei genitori minacciandoli di morte e aggredendo lei a calci e pugni, dopo aver chiesto l’intervento delle forze dell’ordine, è riuscita a farlo arrestare. Annamaria di Napoli, ancora adolescente, era stata fatta interdire dal padre e dal fratello, che la trattavano come una schiava e le impedivano di uscire di casa. Perfettamente capace di intendere e di volere, la ragazza si è fatta aiutare da un centro ed è riuscita a far interrompere l’interdizione e a denunciare i familiari. Vittoria di Caserta, dopo 20 anni di matrimonio e violenze è scappata, portando con sé due dei sei figli e, dopo aver trascorso 7 mesi nel centro di accoglienza, è tornata a casa e ha fatto arrestare il marito. Lilia di Milano, dopo anni di violenze sessuali e minacce di morte, si è sfogata con un’amica che le ha consigliato di rivolgersi a uno sportello giuridico specializzato. Le operatrici l’hanno seguita nel percorso legale mettendola in contatto con un’associazione che l’ha anche aiutata a trovare un lavoro. Storie diverse e simili, di donne che ce l’hanno fatta. Ad accoglierle e accompagnarle, le operatrici, che riconoscono i loro problemi prima ancora di sentire i loro racconti. Le donne che riescono a liberarsi dai maltrattamenti non hanno una marcia in più di quelle che non ce la fanno. Hanno solo deciso una volta per tutte di averne abbastanza. A volte la decisone scatta per paura di morire, a volte dopo aver visto picchiare o violentare i figli, a volte dopo un colloquio con un centro antiviolenza o, addirittura, con un’amica. Ogni percorso è diverso, ma tutti conducono allo stesso traguardo. La libertà.