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 2013  giugno 29 Sabato calendario

ROLLING STONES


Forse questi quattro signori, i Rolling Stones, non dovrebbero essere qui, a questo punto della loro vita, a fare questo. E a farlo così mostruosamente bene. È un pomeriggio di aprile, siamo nei dintorni di Burbank, in California, in una sala prove grande quanto un garage. Keith Richards è in piedi davanti a Charlie Watts, che lo osserva attentamente mentre suona l’intricata, minacciosa intro di chitarra di Gimme Shelter con la stessa cura e delicatezza di uno che si fa strada all’inferno. Richards riprende gli accordi, Watts lo segue con la batteria, come un’ombra dietro alla sua chitarra, mentre Jagger lancia un ululato spettrale, una nota alta che suona come il richiamo di un fantasma di un futuro che non vorresti mai vedere, e che al tempo stesso non vedi l’ora di scoprire. Quindi tutta la band – ovvero Keith Richards, Charlie Watts, il chitarrista Ronnie Wood, il bassista Darryl Jones, il corista Bernard Fowler e il tastierista Chuck Leavell – entra nella canzone con un rombo minaccioso. Jagger si muove avanti e indietro con mosse feline, senza guardare nessuno negli occhi, ma fissandoli da qualche parte, oltre il muro di questa stanza, che la band sembra in grado di attraversare con il suo suono, e intanto canta la preghiera mortale: "Una tempesta sta minacciando la mia vita / Se non trovo un riparo sarò spazzato via...". La canzone migliore mai uscita dalla collaborazione tra Jagger e Richards, la visione di una rovina imminente che porta con sé un’invocazione di pietà. Oggi, in questa stanza, suona anche come un monito: quando questa band crea qualcosa di così spaventoso e liberatorio, non può fare a meno di fare quadrato intorno a se stessa. Chiusi qui dentro, gli Stones devono lavorare insieme, e darsi una mano l’uno con l’altro. «Le individualità della band si fondono in una sola, quella dei Rolling Stones» dice il produttore Don Was. «E quando succede, viene fuori qualcosa di veramente potente. Non senti più le singole parti, ma un’entità unica. Ed è piuttosto grande».

Gli Stones stanno provando il loro primo tour da sei anni a questa parte, dopo aver tenuto una serie di concerti a Parigi, Londra, Brooklyn e Newark nell’autunno del 2012 per celebrare i loro 50 anni di carriera. È un traguardo straordinario, per varie ragioni. Poche band al mondo sono riuscite a sopravvivere, e ancora meno a trionfare, mantenendo intatta la formazione iniziale (Jagger, Richards, Watts). Come mi ha fatto notare una volta proprio Watts, l’unico esempio simile di longevità nella musica del secolo scorso è la band di Duke Ellington, che il leggendario pianista jazz ha guidato per 50 anni, dal 1924 al 1974, anche se in quei decenni non ci sono stati membri fissi. Questi numeri dicono che i musicisti radunati in questa stanza hanno tutti dai 50 ai 70 anni, e stanno suonando un genere solitamente associato alla spavalderia della gioventù. Nei primi anni ‘60 i Rolling Stones hanno rappresentato l’atteggiamento, l’immagine, il desiderio e la rabbia giovanile, e in cambio sono stati criticati, condannati, sottoposti a persecuzioni giudiziarie, addirittura a volte banditi. «Tutte cose che di solito non aiutano molto a durare nel tempo», dice Richards.
Nonostante siano invecchiati, e molte cose siano cambiate negli ultimi 50 anni, gli Stones sono ancora la band che più di tutte definisce il rock&roll. Continuano a suonare con tenacia e senso del rischio, come se fosse ancora possibile sconvolgere il mondo con il loro suono. Hanno trasformato questa determinazione condivisa in una specie di sfida infinita, alla faccia della disperazione di alcuni critici e anche di certi colleghi: «Bisogna fare i complimenti ai Rolling Stones, festeggiano i loro 112 anni insieme. Evvai!», disse John Lennon nel 1980. Eppure, nel 2013 sono ancora qui, misteriosamente uniti e pronti a partire per il tour più atteso della loro carriera dai tempi delle leggendarie escursioni statunitensi del ‘69 e del ‘72. I loro sforzi saranno ripagati molto bene: i biglietti dei loro concerti costano tra i 150 e i 2000 dollari. Chiedo a Jagger se non pensa che ci sia un’incongruenza tra l’attuale ricchezza della band e l’immagine ribelle degli inizi: «Non lo so... non vorrei affrontare l’argomento... mi sembra sia la solita infinita questione della lotta tra l’arte e la sua commercializzazione...». Richards non svicola dalla domanda, ma è una cosa che non pare infastidirlo molto: «Per me le cose stanno così: abbiamo annunciato di voler fare un tour, e ci sono arrivate delle proposte, tutte uguali. Abbiamo abbassato un po’ i prezzi, diciamo che abbiamo scelto l’offerta più bassa. Ma sono i prezzi del mercato. Non ho altro da dire, se non che vorrei che la gente riuscisse a venire a un nostro concerto senza far morire di fame i propri figli. Tutto qui». Nonostante le buone prospettive di guadagno, Jagger (che approva personalmente ogni dettaglio di ogni tour della band) non ha dato l’approvazione definitiva fino all’inizio del 2012: «Non siamo pronti», disse a Rolling Stone. A Los Angeles, in un’intervista poco prima dell’inizio del tour, mi ha confessato: «L’ho detto perché ci stavano offrendo un sacco di cose, tipo suonare alle Olimpiadi, e... era vero, non eravamo pronti. Era un’ottima scusa per rinunciare a tutte quelle proposte». Ma il problema non era solo quello. Gli Stones sono famosi per le divisioni interne, fin da quando Brian Jones smaniava per conquistare la leadership, mentre Richards e Jagger emergevano come principale forza creativa della band. Negli anni successivi è emerso chiaramente che Jagger e Richards non erano più in accordo sulle intenzioni della band. La leggendaria amicizia di Richards con eroina e alcol, inoltre, ha rischiato di far fallire tutti i progetti. Poi nel 2010 è arrivata Life, la sua acclamata autobiografia, e la relazione con Jagger ha toccato il punto più basso. Ha scritto cose brutali su di lui e la loro amicizia, e Mick si è arrabbiato. Poi, avvicinandosi il 50esimo anniversario, Richards ha contattato gli altri dicendo: «Ragazzi, mi sta venendo una voglia... a voi?». Ma Jagger non ha dato l’impressione di voler dimenticare le offese così facilmente.
L’ultima volta che ho incontrato gli Stones è stato alla fine degli anni ‘80, più o meno a metà della loro carriera, nel periodo tra il turbolento Dirty Work (1986) e Steel Wheels (1989), che lo stesso Richards ha definito come «la Terza Guerra Mondiale». Il futuro della band era in pericolo. Quando l’ho intervistato a Manhattan, a febbraio del 1986, girava voce che Jagger avesse già escluso l’idea di fare un tour per promuovere Dirty Work. Richards si presentò all’intervista con una bottiglia di Jack Daniel’s e se la scolò tutta. Mostrò il meglio di sé, elogiando l’interpretazione di Jagger nella cover di Harlem Shuffle, il classico R&B del 1963 di Bob and Earl. Mi disse che sperava di vedere fino a dove gli Stones sarebbero riusciti ad arrivare con la loro musica, invecchiando in pace come una confraternita rock&roll. Nessun altra band lo aveva mai fatto, prima. Era come se stesse esprimendo un desiderio. Jagger però non ne era così sicuro. Lo incontrai a Londra nell’estate del 1987, aveva già, pubblicato il suo primo album solista, She’s the Boss (1985) e stava per uscire con il secondo, Primitive Cool. La possibilità che stesse mettendo da parte gli Stones per una carriera solista (come Michael Jackson dopo aver lasciato i Jacksons) aveva fatto infuriare Richards. Si diceva anche che Jagger volesse andare in tour senza la band, e questo era un affronto insopportabile per Richards, perché lui aveva espresso il desiderio di tornare a suonare dal vivo già da molte tempo. «Pensavo che Mick non avrebbe avuto il coraggio di andare in tour senza gli Stones», raccontò in seguito, «sarebbe stato uno schiaffo troppo forte, una vera e propria sentenza di morte per la band». A pranzo con lui, chiesi a Jagger se aveva voglia di affrontare la questione: «No, davvero», mi rispose, «non farebbe altro che alimentare ulteriori polemiche, Keith si arrabbia ogni volta che dico qualcosa, anche quando cerco di essere gentile o comprensivo». Poi però lo fece. «Ci sono stati molti alti e bassi nella storia degli Stones, questo è uno di quei momenti no. Spero torneremo insieme, ma detto ciò credo sia giusto che ognuno di noi abbia la possibilità di esprimere la propria creatività fuori dalla band. Amo i Rolling Stones, sono fantastici e hanno fatto cose bellissime. Ma alla mia età, e dopo tanti anni, non posso pensare che sia l’unica cosa della mia vita. E se sento l’esigenza di allontanarmi, credo di averne il diritto».

Ovviamente i Rolling Stones sono tornati insieme. Nel 1989, per registrare Steel Wheels, e per uno spettacolare tour mondiale, il primo di molti altri. Ma qualcosa in loro è sembrato necessariamente cambiato da allora, in meglio e in peggio. All’ombra delle incombenti scenografie del palco e dei set luci mozzafiato, gli Stones sono rimasti soprattutto una band, ancora attiva e ancora in tour, faccia a faccia con una dura realtà fatta di paure e gioie, proprio come i loro idoli blues, Muddy Waters e Howlin’ Wolf, avevano fatto fino all’ultimo giorno di vita. Hanno pubblicato altri album, Steel Wheels (1989), Voodoo Lounge (1994), Bridges to Babylon (1997) e A Bigger Bang (2005), in cui Jagger ha introdotto una gamma di suoni più ambiziosa e Richards ha riscritto la sua visione del blues con un suono ancora più angosciato e solitario. Ma i due non hanno mai recuperato una vera intesa. Hanno subito insieme la collera delle autorità britanniche, che li consideravano una minaccia per la società, sono stati processati, hanno affrontato insieme il carcere nel ‘67, vissuto la caduta delle illusioni pacifiste e corso un reale pericolo ad Altamont nel ‘69, ma oggi sembra che non abbiano più quella vera fratellanza. L’impressione è che con il passare del tempo Jagger abbia avuto la meglio: la sua scrupolosa professionalità gli ha garantito un controllo sulla band che Richards, alle prese con le dipendenze e lo status di icona rock mondiale, non è mai stato in grado di avere. Oggi vivono per lo più in città diverse, se non in Paesi diversi, e possono stare mesi senza parlare, a meno che non si tratti di urgenti questioni di affari. Sembrano uniti solo da un’incomprensione reciproca. «Non entro nel suo camerino da almeno 20 anni», ha detto Richards, «a volte il mio amico mi manca». Si è scoperto che Richards ha tenuto per anni un diario in cui ha annotato tutto, a volte parola per parola. Dopo il tour del 2007, insieme al giornalista James Fox, ha messo insieme questi ricordi e una serie di interviste per scrivere Life, la sua biografia. Raccontando le sfide e i trionfi, le sconfitte e i momenti di dolore, e diverse rivelazioni sull’evoluzione del suo stile chitarristico. "Mi ha colpito vedere quante persone si siano interessate alle mie accordature segrete". In certe pagine, però, Keith ha parlato troppo. Ha descritto il disco solista di Jagger del 2001, Goddess in the Doorway, "irresistibile al punto da meritarsi un nuovo nome: Dogshit in the Doorway (merda all’ingresso, ndr)", ritraendo Mick come un uomo che è cambiato troppo. Uno che da persuasivo e premuroso si è trasformato in ambizioso e ossessionato dal controllo, fino a diventare insopportabile. "All’inizio degli anni ‘80 si è trasformato in Brenda, o Sua Maestà. Parlavamo di quella stronza di Brenda davanti a lui, e non se n’è mai accorto". Ha scritto anche: "Mick non si fida di nessuno, forse questa è la differenza principale tra me e lui. Non saprei come altro dirlo. Credo sia una conseguenza dell’essere Mick Jagger, e di come lui gestisce il fatto di esserlo. Non riesce mai a smettere di essere Mick Jagger". Molte di queste esternazioni non erano nuove. I due se ne sono dette di tutti i colori per anni sui giornali, salvo poi passarci sopra e spegnere le polemiche. Richards ha sempre detto di voler porre l’unione e l’indistruttibilità della band sopra ogni altra cosa, poi con Life ha messo tutto in discussione. L’effetto, stavolta, non sarebbe stato un semplice litigio, ma una vera minaccia alla sopravvivenza del gruppo.
Quando Jagger, sul palco dei Grammy nel 2011, ha reso omaggio a Solomon Burke con una performance straordinaria e piena di soul, forse stava lanciando un messaggio a Richards: sono capace di fare una cosa così sorprendente senza di te e senza gli Stones. Richards era in grado di fare altrettanto? Dopo tutto, è stato Jagger a prendersi cura di lui, lo ha aiutato ad affrontare i problemi di salute causati dai suoi eccessi. «E l’unico che non ha mai smesso di credere in lui», ha detto Jane Rose, la manager di Richards, al giornalista e biografo Victor Bockris. È stato Jagger a tenere in mano le redini della macchina Rolling Stones e a gestire gli affari della band. Tutte cose che hanno legato Jagger per la vita a Richards, l’eroe folkloristico, il quale però in cambio lo ha descritto come un uomo ossessionato dal successo e dal suo ego. Stavolta, prima di valutare un tour per i 50 anni, cosa che Richards desiderava molto, Jagger ha messo in chiaro che sarebbe arrivata una specie di resa dei conti. I dettagli sono rimasti segreti, ma, come ha commentato Ron Wood, «ci sono stati momenti sgradevoli, di grande tensione». Girava voce che persino il ruolo di Richards come chitarrista della band fosse in discussione. Qualcuno diceva che Keith avesse problemi a suonare, forse per colpa dell’artrite, o perché l’abuso di alcol aveva compromesso la sua velocità performativa. Nel 2007, dopo aver letto la recensione di un concerto a Göteborg in Svezia in cui il giornalista Markus Larsson avanzava il sospetto che fosse salito sul palco «super ubriaco», Richards ha preteso delle scuse. Ma Larsson non ha voluto scusarsi con «una rockstar che a stento riesce ancora a suonare il riff di Brown Sugar». Secondo una fonte vicina alla band, quando gli Stones si sono riuniti a Londra a dicembre 2011, non lo hanno fatto solo per le prove ma, almeno per quanto riguarda Jagger, per verificare se Richards ce la faceva ancora.

Lo scorso aprile ho passato un’ora con Jagger nella sua suite d’hotel a Beverly Hills: «Non so di che diavolo dobbiamo parlare», mi ha apostrofato, sorridendo. Allora mi è venuta in mente una frase della moglie del chitarrista Waddy Wachtel: «Quando Mick Jagger sorride, tutto va al posto giusto». È incredibilmente in forma. Gli chiedo anche come allena la voce: «Quando sono sul palco non mi limito a cantare, voglio anche offrire una performance. Muovo le braccia, corro, ballo e questo mi porta via la metà del fiato. Il mio obiettivo è trovare un equilibrio, non voglio certo ritrovarmi senza voce. A casa, per mantenerla allenata, mi esercito con il karaoke, scrivo molte canzoni, registro dei demo, canto. Sono fortunato; non voglio sembrare presuntuoso, ma canto tutti i pezzi con la stessa tonalità di sempre, le note più alte sono tutte ancora lì, anzi forse le canto meglio perché non fumo più e bevo molto di meno». Affrontiamo l’argomento Life, e gli chiedo se per caso le scuse da parte di Richards non siano state... «un requisito necessario per andare avanti?», mi interrompe. «Beh, diciamo che è stata una buona cosa il fatto che si sia scusato. Sì, in fondo era la condizione necessaria. Bisogna avere il coraggio di parlare di queste cose, non bisogna lasciarle in sospeso. È una cosa tipica degli inglesi, non amiamo affrontare di petto le questioni personali. Stavolta invece è stato positivo parlarne». C’è qualcosa che ti è piaciuto nel libro di Keith? Hai trovato accurata la ricostruzione degli esordi della band? «Accurata...», ripete con una risata amara, «... non mi va proprio di parlare del libro di Keith». Nell’87 Jagger mi aveva detto: «Ho molto rispetto per Keith, gli voglio bene, ho un istinto di protezione verso di lui. È una persona, diciamo così, vulnerabile, ha passato molti periodi difficili, ma se l’è anche spassata parecchio. Abbiamo riso e sofferto insieme, molte volte». Oggi invece dice: «abbiamo un buon rapporto di lavoro, è concentrato e sembra che si diverta a suonare».

In ogni intervista arriva un momento in cui ti rendi conto che è inutile insistere. A volte lo fai lo stesso, altre fai un passo indietro. Quando Jagger mi dice che non vuole dire altro su Richards, lo fa con gli occhi bassi, guardando il bicchiere d’acqua davanti a sé, e capisco che la sua reticenza nasconde una sofferenza reale. Provo a prenderla alla larga: molti, non solo Richards, sostengono che negli anni lui sia diventato un po’ freddo e pianificatore. Che ne pensa? «Credo che sia un cliché. Alla gente piace analizzare gli altri, dare giudizi superficiali e mettere delle etichette: Keith è genuino e appassionato, Mick invece è freddo. Ma nella vita le cose non sono mai così nette. Keith può essere freddo come non mai. Non è una critica, è solo che a volte sei costretto a esserlo. Ognuno di noi ha diversi modi di essere, ed è difficile tenerli separati. Quando si parla di cose che non hanno a che fare con la musica devo essere molto analitico e prendere in considerazione punti di vista diversi. Se devo parlare di affari, faccio un passo indietro, cerco di analizzare tutto in modo obiettivo. Non posso permettermi di essere emotivo. Questo non vuol dire che io non provi la stessa passione di un tempo. Mi piace molto occuparmi del design del palco, della grafica del tour e del merchandise, a volte lo faccio con Charlie e ci divertiamo molto. Nei Rolling Stones ricopro diversi ruoli, e poi ho la mia vita al di fuori della band, che è tutta un’altra storia». Provo a tornare sul suo rapporto con Keith. Watts una volta mi ha detto: «Quei due vivono praticamente insieme da quando erano ragazzini, giusto? Erano vicini di casa, viene tutto da lì. Sono come due fratelli che litigano su tutto, e se ti metti in mezzo sei finito». Keith lo ha ribadito in un’intervista recente: «Siamo come due fratelli, molto capricciosi. Quando ci scontriamo, ci scontriamo forte, ma quando finisce...». Anche per Jagger è così? «È quello che dicono tutti, ma io un fratello ce l’ho già. Il mio rapporto con lui non ha niente a che fare con quello con Keith. Con un fratello ci sono i genitori in comune, le famiglie. Keith e io non abbiamo niente di simile. Lavoriamo insieme. Chi non ha fratelli pensa che suonare insieme in una band sia come essere fratelli, ma in realtà è tutta un’altra cosa». Non è comunque un legame forte? «Certo, lavorare con qualcuno così a lungo crea molti legami forti, tanti ricordi che ti uniscono e che vengono fuori ogni tanto. È un gruppo piuttosto ampio, che comprende la band e tutti quelli che le gravitano intorno. Ma non è una famiglia». Hai mai pensato di scrivere in un libro la tua versione? Una volta ha iniziato, poi ha abbandonato il progetto. «L’unica motivazione a cui riesco a pensare è quella di farlo per soldi».

Il giorno dopo incontro Richards in una lounge room vicina alla sala prove. Jeans stretti, maglietta sdrucita, i capelli bianchi raccolti da una bandana grigia. Non si tinge e non ha fatto nessun intervento per mascherare gli anni che passano, come nessun altro degli Stones. Sono senz’altro uomini vanitosi, ma anche a loro agio con l’età che portano in faccia. Fuma una sigaretta dopo l’altra. Gli chiedo un commento su quanto scritto da Prince Rupert Loewenstein, ex consulente finanziario degli Stones, nel suo libro A Prince Among Stones: «Un’amica che si occupa di psicoanalisi mi ha detto: Keith è quello che vince dal punto di vista umano Mick da quello professionale». Mi aspetto un’obiezione, perché da quello che ho sentito dire nessuno vuole mettere a rischio l’armistizio, ma Keith risponde senza esitazioni: «Sì, credo che sia un’analisi giusta». Nel 2008, alla prima di Shine a Light, il documentario di Martin Scorsese sul live della band, qualcuno ha chiesto a Richards se si immaginava la vita senza gli Stones. Lui ha risposto divertito: «Certo». Potrebbe essere vero, o forse no. «Sappiamo di essere grandi e coltiviamo il folle desiderio di diventare ancora più grandi. Siamo ancora tutti qui, il che non è una cosa da poco. Non esiste una band, nemmeno tra quelle che stanno insieme pochi anni, in cui tutti i membri vanno sempre d’accordo. Ma forse si ha il bisogno che la conversazione continui, e la musica è l’unico strumento con cui possiamo farlo, più potente di qualsiasi altra cosa possa mettersi in mezzo. E già un miracolo se due persone riescono a stare insieme per 50 anni, figuriamoci tre o quattro, non trovi? Al tempo stesso, però, non voglio enfatizzare le differenze tra me e Mick, perché se ne è già parlato troppo. Nessuno parla mai del 98% delle volte in cui andiamo d’accordo, ci capiamo e sappiamo cosa vogliamo. Il mio unico mezzo di comunicazione è la musica. Chiamalo accordo tra gentiluomini o come ti pare, ma il fatto è che, quando lavoriamo insieme, tutte le barriere tra di noi tendono a scomparire».
Secondo Wachtel, che suona con Richards nella sua side bar The X-Pensive Winos, Jagger era stato avvertito delle rivelazioni contenute in Life: «Keith gliel’ha fatto leggere prima che uscisse, dall’inizio alla fine. Mick sapeva già tutto, ma hanno voluto montare un caso». Richards non si è stupito della reazione di Jagger: «No, per niente, so come è fatto. Però io volevo raccontare la vera storia. Come ho detto a Mick, dovresti vedere cosa ho lasciato fuori!», ride, «e poi so come avrà fatto: "Hai preso il libro, sei andato all’indice delle voci, hai cercato "Jagger, M" e hai letto solo quello. Non l’hai letto nel contesto, per niente". Sì, ci siamo scazzati su questa cosa, ma me l’aspettavo e poi l’abbiamo risolta a modo nostro». Mick ha preteso scuse? «Sì. Ho risposto che ero dispiaciuto di averlo fatto soffrire e... sai che c’è? Direi qualsiasi cosa per tenere insieme la band, avrei mentito a mia madre». Che gli Stones fossero in pericolo? «No per niente, è stato solo un graffio. Una botta di adrenalina». Qualcosa che si pente di aver scritto? «No, ho detto tutto quello che volevo dire. Non ritratto niente». Mai avuto paura che la band fosse finita? «Ci penso spesso: la band è ormai a pezzi, ma si può mettere a posto. Nessuno di noi l’ha mai buttata nella spazzatura. Eravamo più sulla linea di "OK, è rotta ma con un po’ di impegno la possiamo rimettere in sesto". È quello che abbiamo fatto nell’ultimo anno, e ora è molto più in forma di quel che speravo». Gli ricordo che uno dei suoi desideri era quello di vedere gli Stones invecchiare in pace. Si può dire che abbiano avuto una vita molto lunga anche senza essere in pace. Va bene lo stesso? «Sì, invecchiare in pace è una bella cosa, ma solo se lo fai superando le difficoltà. Se tutto funziona sempre bene, alla fine ti abitui. Sono le situazioni poco eleganti, prive di grazia, che rendono più piacevole tutto il resto. Mi segui?».
A proposito di grazia, Charlie Watts mi ha detto: «Quando suoniamo, se la musica è grandiosa, Mick perdona Keith, e viceversa. È andata così, e anche Keith ha perdonato se stesso per quello che ha scritto. La musica salva ogni cosa». È difficile associare concetti come benedizione e perdono a una band come i Rolling Stones. Perlomeno non a tutti, dentro o a lato della loro storia.
Una brutta sera d’estate del ‘69 il chitarrista Brian Jones è annegato nella piscina di casa sua. Alla fine di quell’anno, gli Stones hanno dato un concerto gratuito ad Altamont, che si è concluso con un ragazzo accoltellato a morte sotto ai loro occhi: «Abbiamo imparato una lezione», mi disse Jagger nell’87, «non si può fare un grande concerto senza controllo». Negli anni seguenti, altri amici degli Stones sono morti: il cantante e musicista Gram Parsons o il produttore Jimmy Miller, forse proprio a causa della loro pericolosa amicizia con la band. Nel ‘74 il chitarrista Mick Taylor se ne andò perché Jagger e Richards non gli riconoscevano i diritti d’autore che gli spettavano, ma anche perché era esausto. «Era il caos», dice oggi Taylor, «eravamo sempre in tour e quando non suonavamo dal vivo registravamo i migliori dischi della loro carriera. Sei album in sei anni, incredibile. Loro hanno continuato così, io ero distrutto, consumato». Mick Taylor è tornato a suonare con gli Stones nei concerti del 2012, come special guest durante Midnight Rambler. Lo farà ancora in questo tour: «Ho capito quanto mi sono mancati quando mi sono trovato sul palco con loro. Mi sono sentito subito a casa, nel mio elemento». Bill Wyman, bassista originale della band, se n’è andato invece nel ‘93, perché non ce la faceva più a prendere aerei: «Sono arrivato a pensare: "Non volerò più". Ho una carriera solista, una famiglia, voglio stare con loro e non voglio più viaggiare». Anche Wyman ha suonato con gli Stones l’anno scorso alla 02Arena. «Le mie tre figlie mi hanno visto con gli Stones per la prima volta, è stato un momento speciale. Ma è durato solo cinque minuti. Sono rimasto un po’ deluso, e per me è finita lì. Perché avrei dovuto andare in America? Per tre concerti in cui suonare due pezzi? Ho capito che, dopo tanti anni, non si può tornare indietro. I ritrovi tra compagni di scuola, le ex fidanzate, riprovare con la tua ex moglie: sono cose che non funzionano. Con una band è lo stesso».

Anche per chi non ha mai lasciato gli Stones le cose non sono andate sempre bene. I problemi di Richards con droga e alcol sono risaputi. Al momento ci si sta andando piano, «ma rimanere sobrio sarebbe abbastanza innaturale per me, non trovi? Tutto con moderazione, come si suol dire. È quando ti dimentichi di questo vecchio detto che le cose si mettono male». Nel 2006, cadendo da un albero alle isole Fiji, ha subito un trauma cranico piuttosto serio. «L’ho rimosso. Me ne ricordo solo quando mi tocco la testa e sento il bernoccolo». Da allora deve prendere medicine tutti i giorni. Wood si è rotto le gambe in un incidente d’auto nel 1990 a Newbury, in Inghilterra. «L’anno scorso mi hanno operato, mi hanno aperto il piede e hanno riempito il buco nell’osso con parti del ginocchio e del fianco. È guarito bene, ma devo stare attento a non stare troppo in piedi». Wood ha anche mollato droghe e alcol. Da allora, dice, suona meglio: «È una specie di magia. Essere lucido mi ha ridato sicurezza, suono meno di prima, ma mi sembra che quello che faccio abbia più significato. È una bella gratificazione. Me ne rendo conto soprattutto nel mio rapporto con Keith. Ora cerchiamo di capirci e di chiarire tutto, prima quando eravamo strafatti giravamo la testa dall’altra parte e ci pensavamo dopo». Persino Watts, il più meritevole di grazia degli Stones, ha avuto problemi di droga: «Ho usato l’eroina per un po’», ha detto nel 2011, «smettevo ogni volta che tornavo a casa. Ma mia moglie si accorgeva che non ero lo stesso». Nel 2004 gli hanno diagnosticato un cancro alla gola ed è stato operato due volte. Oggi, a 72 anni compiuti da poco, è quello che lavora più di tutti. In un concerto di due ore e mezza, ci sono momenti in cui Jagger può stare fermo al centro del palco, o prendersi una pausa quando Richards canta i suoi due pezzi in scaletta. Charlie, invece, non può fermarsi mai: «È il destino del batterista. Sei il motore della band. Non c’è niente di peggio che ritrovarsi senza fiato o con le mani distrutte a metà del concerto». Jagger è l’unico a non aver avuto problemi di salute o crisi particolari, a parte quelle con le donne: il suo matrimonio con Bianca Jagger è finito nel ‘79 e la sua relazione con Jerry Hall è finita dopo 22 anni nel ‘99. Restano le vicissitudini con Richards, e gli alti e bassi della collaborazione nella scrittura dei brani, che risalgono ai primi anni ‘70, ai tempi di Exile on Main Street. Durante le registrazioni di A Bigger Bang nel 2005, dice Jagger, hanno lavorato spesso insieme in studio. Ma quei giorni sono lontani. Doom and Gloom è stata scritta e registrata da Jagger senza gli Stones. Il riff di chitarra che apre il pezzo è suo: «Non me ne frega niente», ha detto Richards a Brian Hiatt, «non avrebbe mai imparato a suonare la chitarra se non glielo avessi insegnato io». L’altro pezzo nuovo, One More Shot, proviene dal materiale composto da Richards per un eventuale disco solista. Tutto ciò per dire che la vita degli Stones ha avuto un prezzo da pagare, anche se non equamente distribuito. Ma non abbastanza alto da far desistere né loro né il loro pubblico per oltre 50 anni. Come mai? «Posso solo dire che non lo so. Io dico sempre: perché hanno successo, perché alla gente piacciono. Amiamo suonare, ma se nessuno ci venisse a vedere, avremmo già smesso», ammette Jagger. «Se mi chiedi cosa rappresentiamo per il pubblico, che tra l’altro è cambiato molto negli anni, non ne ho idea. Credo che sia la nostra longevità, parlo in termini di tempo e non di qualità musicale, anche se non sto dicendo che non siamo bravi. È la longevità che aumenta il nostro fascino, come uno strato che si deposita sopra, la patina del tempo su un bel mobile antico. Essere in giro da 50 anni ti dà... una luce e una brillantezza diverse, direi. Può essere uno svantaggio, rischi di farci troppo affidamento, sai?».

Il 27 aprile 2013 i Rolling Stones tengono un concerto a sorpresa in un club di Los Angeles, l’Echoplex, nei pressi di Echo Park. È stato annunciato solo poche ora prima, e tra i 500 fortunati che sono entrati ci sono ragazzi e 5oenni. In questo piccolo spazio, i Rolling Stones fanno affidamento solo sul loro talento e sulla loro spinta. Suonano 14 canzoni in 90 minuti, ripercorrendo la loro carriera dal ‘68 (Street Fighting Man) fino al ‘94 (You Got Me Rocking), e poi fanno le cover di Little Queenie di Chuck Berry, Just My Imagination dei Temptations e That’s How Strong My Love Is registrata da O.V Wright nel ‘64 nel ‘65 da Otis Redding. Sono rumorosi, grezzi e sorprendenti (come un boato avant-garde), la chitarra di Richards eternamente minacciosa, Jagger versatile e instancabile. Cambia espressione di continuo, e anche se le ha cantate un milione di volte, interpreta queste canzoni come se le scoprisse per la prima volta, disperate, gioiose o categoriche, e sempre con un trasporto selvaggio e un senso di approvazione. Richards si ferma e lo guarda, scuote la testa, sorride di ammirazione e lancia uno sguardo a Wood, che a sua volta guarda Watts. Qualche giorno prima, Richards e io abbiamo parlato della reunion degli Everly Brothers nel 1983 alla Royal Albert Hall di Londra. Si sa che i due non andavano d’accordo, e non dividevano il palco da almeno 10 anni. Ma mentre eseguivano una versione indimenticabile di Let It Be Me, davanti al microfono, ho visto Phil Everly fare un passo indietro, fermarsi a guardare suo fratello Don che cantava meravigliosamente e rivolgergli uno sguardo di amore incondizionato. «Conosco quella sensazione», mi ha detto Richards, «Mick e io ci arriviamo attraverso la musica. Ci sono momenti in cui dici: "Dio mio, quanto ti voglio bene!". Sul palco succede spesso, lo guardo e rimango ancora sbalordito. Mi sembra quasi di diventare uno del pubblico, quando lui tira fuori il meglio di sé mi sorprende sempre. È un altro dei motivi per cui sono qui». Watts ha detto qualcosa di simile. «Ora che non ci sono più Michael Jackson e James Brown, Mick è il miglior frontman del mondo. Sul palco è il numero uno. Si impegna al massimo, è in ottima forma, è fantastico, ha tutto quello che serve». Il bis di stasera, Jumpin’ Jack Flash, lo conferma. Nel ‘68 questo pezzo ha trasformato il rock&roll; prima era un insieme di idealismo e ingenuità, con canzoni come All You Need Is Love dei Beatles che facevano credere che la speranza e l’altruismo bastassero a bilanciare il caos e il pericolo del mondo. Poi è arrivata Jumpin’ Jack Flash con la sua storia di randagi abbandonati che trovano la forza di andare avanti, anche a costo di mettersi in pericolo. Sul palco dell’Echoplex, Jagger interpreta il suo credo puntandosi un dito contro la terapia mentre canta: «Sono stato incoronato con un chiodo che mi trapassava la testa». Sembra sul punto di cadere morto stecchito, poi saltella, scuote i fianchi, cammina con aria spavalda verso il centro del palco e proclama: «Ma ora è tutto a posto, in effetti è uno spasso. È tutto a posto, sono Jumpin’ Jack Flash. È uno spasso! Spasso! Spasso!». È il ritratto estatico, malvagio e amorevole del viaggio di un uomo all’inferno e ritorno. È sempre stato questo il fine ultimo della musica degli Stones. Il blues è nato per far sopportare l’insopportabile, il piacere e tutto quello che le persone fanno a se stesse e agli altri. La musica degli Stones parla di questo, e anche di come superare la storia, compresa la loro storia insieme. È il modo che gli Stones hanno utilizzato per attraversare il tempo, e non è un cattivo esempio: a volte non c’è soluzione, dobbiamo aiutarci l’uno con l’altro. Richards mi ha descritto ciò che sente nella musica di Robert Johnson, il bluesman del Delta degli anni ‘30: «La paura. Quando hai visto la paura in faccia, vuoi dire a tutti che si può affrontare. È inutile ignorarla. Anche noi lo abbiamo fatto, per esempio in Gimme Shelter. La paura è un elemento vitale, un’emozione da usare per scrivere una canzone, simile a tutte le altre. Capisci cosa voglio dire? Si può dire che noi raschiamo il fondo di ogni emozione».