Alberto Francescut, SportWeek 29/6/2013, 29 giugno 2013
CARNERA PRIMO PER SEMPRE
Ottant’anni dopo, come fosse ieri. Il déjà vu è l’accogliente e abituale ritrovo riservato agli amici di sempre: una vecchia stalla ristrutturata. Un raduno alla friulana, attorno a un tavolo imbandito con salame e vino fatti in casa per brindare tra un ricordo e l’altro.
«Cin cin», rompe gli indugi Antonio Tomat, classe 1924. La sua abitazione si trova a Lestans, frazione di Sequals, la cittadina del Pordenonese che è sinonimo di Primo Carnera, il pugile di cui oggi, 29 giugno, ricorre l’ottantesimo anniversario della vittoria del Mondiale dei pesi massimi. Al Madison Square Garden di New York, il tempio della boxe, all’inizio dell’estate del 1933 il gigante mise k.o. Jack Sharkey con un montante destro al sesto round. Diventando il primo italiano a conquistare la cintura iridata.
Ad attenderci nella vecchia stalla, con il "signor Toni" c’è il cognato e compaesano Pietro Liva. Un po’ si somigliano. I due arzilli ragazzini, rispettivamente 89 e 90 anni, ripercorrono con lucidità l’adolescenza "carneriana". Come pure Gino Ferrarin, classe 1923, di Pordenone: prima prigioniero di guerra nel carcere di Spandau (a Berlino) e poi emigrato in Inghilterra dove lavorò per 56 anni come terrazziere. Riuniti dall’ex sindaco di Sequals, Enrico Odorico, sono loro la memoria storica vivente delle gesta di Carnera. Al ristretto elenco manca solo Severino Fabris, 91 primavere, da molti anni trasferitesi in Francia e unico pugile rimasto ad aver fatto i guanti con il suo grande maestro di vita e amico. «A fine allenamento, seduti a bordo ring con una coperta sulla schiena e un catino sulle ginocchia con il sudore che scendeva, Primo mi parlava della sua vita sottolineando l’importanza del sacrificio», racconta al telefono Fabris, ancora commosso. «Soprattutto diceva: "Non puoi immaginare che cosa si prova a uccidere un uomo" (in riferimento al tragico match di Carnera contro Ernie Schaaf del 10 febbraio 1933; ndr). Da quel momento, Primo sul ring non utilizzò mai più tutta la sua forza».
Quando Carnera vinse il titolo, Antonio Tomat aveva 9 anni. Anche lui emigrante come il grande pugile, lavorò per 12 anni in Venezuela, dove arrivò a creare un’impresa di pavimenti in granito. Un uomo dalla pelle dura e dal cuore tenero: «Mi sono mancati la moglie e il figlio, però il segno della croce lo faccio lo stesso ogni giorno».
«Da bambino facevo parte dell’Opera Nazionale Ballila», continua Tomat. «Con gli amici partecipavo al Sabato fascista in camicia nera. Era prevista un’ora e mezza di attività fisica, di cui un terzo nella palestra di Villa Carnera, la casa del campione. Appeso alla palestra c’era il sacco per gli allenamenti (c’è ancora; ndr): con il pugno destro Primo lo faceva salire fino a toccare il soffitto e quando scendeva lo bloccava con il braccio dritto, rimanendo immobile. Aveva una forza incredibile, la voce grossa e i piedi lunghi 36 centimetri, ma noi lo vedevamo ancora più grande. Ci mostrava come si boxava, era felice di stare in mezzo a noi». Era il gigante buono che la figlia Giovanna Maria, rientrata definitivamente dagli Stati Uniti a Sequals nell’aprile del 2010, preferisce invece chiamare "gigante tenero" perché racchiude altri significati: quando viveva in Florida, Primo inviava a Sequals i regali di Natale ai bambini del paese.
«Nell’attività fisica avevamo come istruttore il geometra Berto Mora», dice ancora il signor Antonio. Mora è la persona che avrebbe salvato Carnera dai partigiani (ma non ci sono fonti certe), i quali, considerandolo fascista, l’avevano rapito e portato nelle montagne sopra Sequals per fucilarlo. Lì il geometra si sarebbe recato in motocicletta: aveva capito che Primo era sfruttato dal regime per propaganda e il suo intervento diplomatico, si dice, risultò decisivo. Ancora Tomat: «Non conosco questo particolare e non so se Mora fosse un partigiano, però posso dire con certezza che era sempre "attaccato" a Carnera».
Le notizie sul pugile giungevano puntuali, neanche fosse l’era dei social network. Al suo rientro dopo la vittoria del titolo mondiale, si mobilitò tutta Sequals: «Il paese, molto più popolato di oggi, era gremito in ogni angolo e colorato di tricolore», commenta Ferrarin. «All’inizio, prima di trasferirsi nel centro del paese, tutti si riunirono a borgo San Nicolò, a due passi dalla casa natale di Primo», precisa Fabris. «Ci fu anche un incontro nella sede della Società Operaia, dove Carnera parlò al pubblico. Io scattai una foto con lui e i bersaglieri che ancora oggi è affissa al "Bottegon", l’osteria dove Primo incontrava gli amici».
Un altro aneddoto lo racconta Pietro Liva: «Un giorno, mia nonna Maria mi chiamò e disse: "Vieni a Sequals che Primo combatte alla Società Operaia con Paulino (Uzcudun, il basco battuto a Barcellona nel 1930 e tre anni dopo nella difesa del titolo mondiale a Roma, ndr). Ciò che accadeva a Carnera si espandeva subito a macchia d’olio. In particolare noi dei Ballila venivamo informati subito. Però del match vincente contro Sharkey non ho proprio ricordi: sa, la tivù non c’era ancora».
Anche Liva, come molti della sua generazione, fu emigrante: «Per undici anni, dal 1950 in poi, in Canada, dove conobbi Primo. Lui praticava la lotta libera, mentre io trovai occupazione come muratore nell’impresa di suo cugino, Bepi Mazziol». L’immigrazione con la valigia di cartone era anche questa: dal "fazzoletto" Sequals al Nordamerica, richiamato da paesani per il magico ritrovo.
Che intrecci. Come quello da brividi che Tomat racconta con ironia. Avvenne nel 1944, in piena Seconda guerra mondiale, sulla strada che collega Lestans a Sequals: «Appena arrivati, i cosacchi, che erano stati "arruolati" dai nazisti, mi catturarono a Lestans con il medico condotto Luigi Sandrini e l’arciprete, nonché parroco di Sequals, don Giuseppe Della Pozza. Ci rinchiusero nel carcere di Spilimbergo. Dopo quattro giorni, Carnera, che tra l’altro aveva lavorato per l’impresa tedesca di costruzioni Todt, conobbe il maresciallo nazista e fece liberare i prigionieri di Sequals, ma non quelli della frazione come me». Nel dire questo, Tomat manifesta ancora oggi stupore per l’accaduto. «Da Spilimbergo venni poi trasferito a Udine per un mese. Alla vigilia della partenza verso un campo di concentramento (non sapevo quale, però), saltò in aria il ponte di Dogna che collegava Udine all’Austria». Ed ecco l’ironia: «Ma io me ne sarei andato volentieri visto che... la fidanzata mi aveva lasciato».
Antonio Tomat si salvò e così, qualche giorno dopo, poté assistere a un curioso episodio che ebbe luogo nel centro di Sequals: «Alcuni partigiani videro un tale con una bicicletta. Avendo bisogno del mezzo, lo fermarono intimandogli di consegnargliela. Il signore obbedì, ma non prima di scaricare un pugno, anzi, "il" pugno sulla sella. I soldati non sapevano che quel tale era Carnera». L’episodio lo raccontò qualche anno fa lo scomparso Giuseppe Zanelli, ex dentista di Sequals e figlio di Gino, podestà del paese. «Il buco nella sella della bicicletta, custodita da Pietro Mazziol, cugino di Primo, si vede benissimo ancora oggi a distanza di decenni». Ottant’anni dopo, ma è come fosse ieri: per i miti "viventi" accade così. Cin cin.