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 2013  giugno 29 Sabato calendario

Sul soffitto della camera da letto che divise per cinque anni con Liberace c’era una riproduzione del Giudizio universale di Michelangelo con la faccia del pianista americano al posto di uno dei cherubini

Sul soffitto della camera da letto che divise per cinque anni con Liberace c’era una riproduzione del Giudizio universale di Michelangelo con la faccia del pianista americano al posto di uno dei cherubini. La prima volta che ci entrò, Scott Thornson aveva 16 anni, 40 meno dell’uomo che quella sera gli fece visitare la sua casa di Las Vegas. Il suo nome, oggi, vi dirà poco o niente. Ma negli anni Sessanta e Settanta Wladziu Valentino «Lee» Liberace, figlio di una polacca e di un italiano emigrato da Formia, era il musicista più pagato del mondo. Così famoso da avere un suo programma in Tv. Adorato, soprattutto in America, per quel modo di mescolare i classici e la musica popolare, di chiacchierare con il pubblico facendolo magari salire sul palco, di arricchire lo show - mezzo secolo prima di Lady Gaga - con smoking di lamé, lunghe pellicce, pianoforti glitterati e sormontati da un onnipresente candelabro. Il mondo kitsch che Scott, durante quella sua prima visita al casinò personale di Liberace, imparò a conoscere: statue di mori e pavoni impagliati, piume di struzzo e strascichi di ermellino, tavoli di lucite con sopra i portacenere che amava rubare negli alberghi. «È stata una vita fantastica», dice Thorson, accogliendomi nella spartana camera da letto dove dorme ora, muri di gesso, unica decorazione una copertina di Hustler incorniciata. Per arrivarci ho suonato al cancello del più famoso bordello legale del Nevada, il Moonlite Bunny Ranch, ho aspettato nel bar dove i clienti incontrano le ragazze, mi sono fatto portare da Madame Suzette oltre le camere di Miss Pantera e Air Force Amy, sono uscito sul retro nel sole del deserto di Carson City e sono finalmente arrivato a un piccolo bungalow con disegnati sul pavimento davanti alla porta due coniglietti che si accoppiano: «Il filo conduttore della mia vita è il kitsch», ride Thorson. «Non male, se penso dove ero fino a cinque giorni fa». Cinque giorni fa il toy boy più famoso d’America era nel penitenziario della contea di Washoe, dove era stato rinchiuso a febbraio per avere speso 1.300 dollari con una carta di credito non sua. A farlo uscire pagando 15 mila dollari di cauzione è stato Dennis Hof, padrone del Bunny Ranch e di altri cinque bordelli, un fiuto micidiale per le mosse pubblicitarie di dubbio gusto. La sera del suo rilascio Thorson ha così potuto vedere con le ragazze del Ranch Behind the Candelabra («Dietro al candelabro»), film-scandalo tratto dall’omonimo libro di memorie pubblicato nel 1988, un anno dopo la morte di Liberace: Matt Damon interpreta lui, Michael Douglas è Liberace, la regia è di Steven Soderbergh. «Bravissimi tutti, e Matt mi somiglia», dice Thorson. «Quanti ricordi: a volte è difficile pensare che non sia stato tutto un sogno». Per ricordarselo, a Thorson basta guardarsi allo specchio: la sua faccia è ancora una copia di quella di Lee, come lui chiamava Liberace. In una scena clou del film è ricostruito il momento in cui il musicista prese un suo ritratto a olio dalla parete e si rivolse a Jack Startz, all’epoca il chirurgo estetico più famoso di Hollywood: «Voglio che tu renda Scott uguale a me». Per allungargli la faccia, che era rotonda, vennero messe protesi alle guance, fu affilato il mento, rifatto il naso. Pochi mesi dopo Liberace lo buttava fuori di casa, in pigiama sotto un cappotto di visone: «Solo la fine è stata orribile: del resto rivivrei ogni minuto». Rifarebbe persino la plastica? «Anche quella: venivo da una famiglia distrutta, non avevo mai avuto una casa e mi ero ritrovato a fianco dell’uomo più famoso del mondo. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di rimanergli a fianco». Anche se lui la nascondeva? «Era un’altra epoca. Se si fosse saputo che era gay, la sua carriera sarebbe stata distrutta. Era arrivato a querelare chi pubblicava voci sul suo conto. Certo era un atto di illusionismo: bastava vedere le pellicce da baraccone che indossava sul palco. O ascoltare le parole affettuose che usava per presentarmi al pubblico quando scendevo dalla Rolls tempestata di strass con cui lo guidavo al pianoforte con sopra il candelabro». Lo amava? «Certo che sì: dopo di lui non mi sono più innamorato di nessuno. Mi manca tantissimo. Ma era un rapporto di odio e amore, perché stargli accanto non era facile: per anni non mi ha mai voluto perdere d’occhio neanche un momento, non uscivamo mai, era impossibile, asfissiante. Mi diceva sempre: "Voglio essere tutto per te: padre, fratello, amante, migliore amico"». A sua immagine e somiglianza. «La chirurgia plastica servì anche a celare il nostro rapporto: siccome dopo l’operazione tutti mi scambiavano per suo figlio, gli venne l’idea di adottarmi legalmente. Anche per questo al momento della separazione chiesi 113 milioni». Quanto ottenne? «Circa 100 mila dollari. Una miseria». Perché finì? «Lee voleva che dimagrissi, e Startz mi prescrisse la "dieta di Hollywood", allora molto di moda: un mix di cocaina, anfetamine e sedativi. Quando ho smesso, sono entrato nel tunnel della coca». Il film finisce col funerale di Liberace, morto di Aids nel 1987: eravate ancora amici prima che morisse? «Ero con lui un’ora prima della sua morte. La verità che il film non racconta è che abbiamo continuato a frequentarci anche dopo la separazione». Che cosa le è successo dopo? «Di tutto. Mi sono messo in affari con Eddie Nash, che gestiva i nightclub e il traffico di cocaina a Los Angeles. Ero a casa sua quando i suoi uomini picchiarono John Holmes: l’attore porno era cocainomane e aveva fatto entrare dei ceffi nell’appartamento di Nash per rapinarlo». È una scena che è stata ricostruita nel film Boogie Nights. «Esatto. E quando Nash ha mandato i suoi sicari ad ammazzare quattro complici di Holmes sono finito nel programma federale di protezione dei testimoni, con un nuovo nome, Jess Marlowe. Ma non ce la facevo a stare nascosto, me ne andai». Dove? «In vari posti. A Jacksonville, Florida, dove mi spararono in testa e all’addome. All’ospedale venne a trovarmi una donna molto religiosa che, dopo aver letto il mio libro, si era messa in mente di salvarmi. Si chiama Georgianna Morrill: vivemmo assieme nella sua casa nel Maine per 12 anni, durante i quali cercò anche di rendermi eterosessuale. Una noia mortale, finché chiamai un mafioso amico di Liberace e gli chiesi di assicurarmi protezione. Lui mandò alcuni dei suoi a parlare con Nash, e io tornai in California». A fare che cosa? «A spacciare a Palm Springs. Mi hanno beccato con tre chili di crystal meth e sono finito in galera: a Corcoran, la stessa di Charles Manson (serial killer, nel 1969 ha assassinato Sharon Tate, moglie incinta di Roman Polanski, ndr), vicino di cella». Come è stato? «Orribile, ma mi sono anche divertito. Avevo 50 mila dollari guadagnati col libro, e con quelli in prigione puoi comprare protezione delle guardie, droga, cellulari». Usa ancora droga? «Sono pulito da sei mesi, anche perché mi hanno diagnosticato un tumore al colon. Voglio rinascere, il film è l’occasione giusta: tutti vogliono conoscere la mia storia. E devo scrivere in fretta il libro che racconta la mia vita dopo Liberace». Come si chiamerà? «Beyond the Candelabra («Oltre il candelabro»). Racconterà anche la mia storia con Michael Jackson: dolcissimo, eravamo a scuola insieme ma abbiamo cominciato a frequentarci dopo esserci rivisti a casa di Lee. Siamo stati uniti cinque anni, ed è stata la mia operazione a dargli l’idea per tutte le sue chirurgie plastiche». Davvero una vita straordinaria. «Lo è ancora: le ragazze del Ranch mi amano, questa è la mia nuova famiglia. Con Dennis stiamo pensando di riaprire qui il museo di Liberace che ho allestito a Las Vegas. Spero solo che non mi rimettano in galera in luglio: ho una nuova udienza». liberaceliberace Pensa ancora a Lee? «Ogni giorno: mi manca tantissimo, ma so che quello che sta succedendo non accade per caso. È la prova che lui, da lassù, si sta ancora prendendo cura di me».