Raffaella Polato, Corriere della Sera 29/6/2013, 29 giugno 2013
ROTELLI, DALLA SANITÀ AI GIORNALI UN IMPRENDITORE CHE AMAVA LE SFIDE
MILANO — Non gli piaceva, essere chiamato «re delle cliniche». Non gli piaceva sul serio. Ci metteva l’anima (e naturalmente il portafoglio). Ma anche a Giuseppe Rotelli pareva che quelle patenti mediatiche, sintesi perfette per i titoli dei giornali — parentesi: altra sua grande passione, vedi l’ingresso nel Corriere, e se il potere c’entrava di sicuro non era la sola e unica molla — alla fine ingabbiassero chiunque nel più rigido dei cliché. Lusinghiero, sì, a volte: ci si può lamentare d’essere incoronato numero uno? Altre, però, scomodo. Divertente, magari. Antipatico comunque da portare. Mai per esempio si sarebbe permesso, l’imprenditore scomparso ieri a Milano a 68 anni, l’arroganza di pensarsi e meno ancora definirsi come «Sua Sanità» (con tutto ciò che in questa definizione si può leggere). Forse tuttavia un sorriso l’aveva strappato anche a lui vedersi fotografare così — brillantemente, avrebbe ammesso per primo: il fatto che non condividesse non gli impediva di apprezzare gli spunti di genio — quando andò allo scontro con lo Ior, dunque con l’ala più «secolare» del Vaticano, per il San Raffaele. Vinse lui. Al ritmo dei 405 milioni (più altri 320 di passività) messi uno dopo l’altro sul piatto. E quel che di buono, anzi eccellente, restava tra le macerie patrimonial-economiche lasciate dalla gestione allegra di don Verzé andò ad accrescere, ancora, l’impero creato da Rotelli a partire dalla clinica San Donato.
Era il gennaio 2012. L’imprenditore nato a Pavia il 30 marzo 1945 già lottava con la malattia che l’ha portato alla morte. Non ci pensava. Presente, attivo e combattivo as usual, «fino all’ultimo — ricorda il comunicato con cui la moglie Gilda e i figli Paolo, Marco, Giulia hanno annunciato ieri sera la scomparsa — con la passione che ha sempre contraddistinto il suo impegno per la costante crescita del suo amato gruppo e della grande rete ospedaliera che ha saputo costruire».
E in effetti. Sapeva, Rotelli, che al San Raffaele nulla sarebbe stato facile, tra tagli da fare, personale da sfoltire, 65 milioni di perdite all’anno da coprire e debiti a iosa da ripianare. Ammise anche, in quelle settimane: «Lo so, l’ho strapagato» (con l’aiuto delle banche). Ma aggiunse pure: «Non siamo cavallette». Un chiaro riferimento ai fondi-locusta, quelli che arrivano, divorano il divorabile, lasciano il deserto, e un modo per ricordare quel che invece lui e la sua famiglia, nella sanità, avevano fatto. L’aziendina nata col nonno, che «si era fatto fare una fideiussione per comprare un carretto e un asino e andare a vendere droghe e coloniali nei negozi di Pavia», il salto nel mondo ospedaliero l’aveva compiuto con il padre. Luigi Rotelli, chirurgo, fonda l’istituto di cura Città di Pavia, lo fa crescere, si «allunga» a Milano, compra il Policlinico San Donato. Il suo busto, oggi, troneggia nell’atrio: omaggio-riabilitazione del figlio al genitore cui doveva tutto, comprese le prime pietre dell’impero, ma la cui intera esistenza venne un brutto giorno travolta dalla bancarotta dell’Ambrosiano. Ne morì, Luigi Rotelli. Prima della sentenza.
Aveva lasciato tutto a Giuseppe. E Giuseppe di suo avrebbe fatto l’avvocato o il giurista: era tanto legato alla propria formazione giuridica da chiamare una delle sue finanziarie, quella che custodisce tra l’altro la partecipazione in Rcs Mediagroup, «Pandette», come il corpus iuris dell’imperatore Giustiniano. Invece cambia strada. Senza nessun rimpianto. Con la stessa determinazione. Anche in nome di suo padre. Ospedale dopo ospedale, clinica dopo clinica — e gli saranno utili le esperienze fatte giovanissimo in Regione Lombardia, al fianco dell’allora presidente Piero Bassetti — mette insieme un polo con 19 centri di cura e che il bilancio 2011 fotografa così: 830 milioni di fatturato, 680 dei quali legati a convenzioni con il sistema sanitario nazionale, profitti oltre quota 30 milioni.
Un regno, appunto. Molto poco sotto i riflettori, per anni. Perché Rotelli è così. Tanta vita (fuori dal lavoro) in famiglia: la moglie e i figli autentici fari. Tanti amici, ma tutti discreti. E dunque zero mondanità: unica concessione ai riti della borghesia Vip la barca a Montecarlo, sola passione da ricchi (colti, però) i quadri del 600-700 milanese. Schivo davvero, dunque. Sobrio per vocazione. Riservato per convinzione. Dopodiché, è vero: con la celebrità — o con il potere, lui che è stato di volta in volta, trasversalmente, accostato a personalità opposte come Silvio Berlusconi e Giovanni Bazoli, che era un autentico liberal ma apprezzava per esempio la fondazione ItalianiEuropei di Massimo D’Alema — aveva un rapporto strano. Rotelli non la cercava. Diciamo pure che ne fuggiva. Eppure sorriderà, in una specie di lamentela ironica, quando sotto quei famosi riflettori comincerà a finirci praticamente tutti i giorni (e non per le vicende del San Raffaele, ancora di là da venire): «Adesso parlano di me, ma solo perché sono diventato azionista del Corriere».
Già, il Corriere. Sul suo ingresso in Rcs Mediagroup si è detto di tutto, fatto ogni tipo di dietrologia. E certo, con il suo 16,5% (prima dell’aumento di capitale: ormai alla fine, nella fase dell’operazione conclusa proprio ieri, Rotelli ha ceduto i diritti detenuti da Pandette), l’imprenditore era diventato il primo azionista singolo, era stato nominato vicepresidente, si era ritrovato (ed effettivamente è stato anche, anzi, soprattutto all’ultimo) vero arbitro dei complicati rapporti ed equilibri societari. Ma il potere reale o presunto dell’editoria, l’ebbrezza che può dare il fatto di sedere ai vertici di un quotidiano (e non un quotidiano qualsiasi) possono, sì, spiegare qualcosa: certamente non tutto. Rotelli la passione per i giornali l’aveva sul serio. Era stato al fianco di Indro Montanelli, con La Voce. Aveva poi sognato di fondarlo lui, un grande quotidiano liberal del Nord, e aveva in testa anche il nome: Il Caffè. A chi aveva incontrato per parlarne, e studiare il progetto, aveva persino spiegato che un’idea tra le tante poteva essere pure qualcosa da distribuire nelle cliniche. Si sentì rispondere: «Fondare un quotidiano? Sono perdite sicure. Perché invece non compra qualcosa che c’è già?». Ne convenne. Il suo ingresso in Rcs — al prezzo anche di costose minusvalenze — probabilmente cominciò lì. Presente poi, e attento, fino all’ultima ora del suo ultimo giorno. Letteralmente: perché tutto era stato predisposto come se lui ci fosse ancora, e avesse solo deciso di prendersi una di quelle pause che in vita mai si era concesso.