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 2013  giugno 29 Sabato calendario

ORSI & TORI - Dopo il Fare e dopo il Lavoro, il riflessivo presidente del Consiglio Enrico Letta che cosa dovrebbe fare, giusto appunto? Perché è sicuro che i pur intelligenti decreti varati nel corso delle due ultime settimane sono solo un’aspirina, ancorché doppia

ORSI & TORI - Dopo il Fare e dopo il Lavoro, il riflessivo presidente del Consiglio Enrico Letta che cosa dovrebbe fare, giusto appunto? Perché è sicuro che i pur intelligenti decreti varati nel corso delle due ultime settimane sono solo un’aspirina, ancorché doppia. E l’economia italiana ha bisogno, per avviarsi verso la guarigione, di una cura da cavallo come usavano nel secolo scorso definire una dose massiccia di medicina da somministrare. Il Belpaese soffre in realtà di più malattie, ma tutte dello stesso ceppo. Le principali sono due e interagiscono da anni fra di loro, debilitando fin quasi al collasso il corpo economico dell’Italia. Il pesantissimo debito, arrivato ormai quasi al 130% nel rapporto con il prodotto interno lordo (Pil), e la insopportabile pressione fiscale, che viene tenuta altissima nel vano tentativo di ridurre, con le entrate, quel rapporto che nessun Paese europeo può drammaticamente vantare. Coadiuvante delle due principali malattie, una terza inevitabile: la mancanza di risorse da investire sia da parte dello Stato, a causa del debito, sia da parte delle imprese e delle famiglie, a causa dell’insopportabile prelievo fiscale. Non ci vuole molto a capire che si tratta di una spirale perversa che sta soffocando il Paese come l’edera, quando prende il sopravvento soffoca qualsiasi altra pianta. E come l’edera la spirale perversa succhia la linfa dalla pianta-Paese, così essa si sviluppa e avanza sempre più, mentre la pianta-Paese si indebolisce inesorabilmente. Se la diagnosi è corretta (e lo è, non perché la fa questo giornale, ma perché non c’è dottore-economista che non la condivida) allora bisogna agire. Magari gli economisti-dottori dissentono sulla cura, anche se gli eccentrici, che pensano a protocolli non collaudati, sono pochissimi (troppo rischioso sperimentare), ma le malattie sono di tale evidenza che nessuno può equivocarne la gravità. Il presidente del Consiglio Letta, ancorché politico, è esso stesso un buon dottore-economista. È cresciuto alla scuola di Beniamino Andreatta, il più profondo ed eclettico economista della Prima repubblica, l’uomo che teorizzò e attuò, una volta diventato ministro del Tesoro, il divorzio fra il Tesoro stesso e la Banca d’Italia, che allora stampava moneta (e che di fatto fino al divorzio la stampava ogni volta che il Tesoro, cioè lo Stato, gliela chiedeva). E Andreatta, come ricordava durante l’ultima assemblea Consob l’ex presidente degli agenti di cambio e della Borsa, Attilio Ventura, aveva portato Letta nell’Arel, l’associazione think tank dove l’economista aveva riunito i cattolici liberali come appunto Ventura e Urbano Aletti e alla quale aveva aderito anche Umberto Agnelli, diventato senatore della Repubblica. Subito il giovanissimo Letta si era messo in evidenza per le sue qualità di economista, fino a diventare, prima della chiamata da parte del presidente Giorgio Napolitano, segretario generale dell’Associazione. Insomma ha tutti gli strumenti personali e di supporto analitico per sapere di quali cure ha bisogno il Paese per bloccare la spirale perversa. E infatti prima di diventare presidente del Consiglio aveva lucidamente indicato che: 1) occorre tagliare il debito; 2) conseguentemente occorre ridurre di almeno tre punti la pressione fiscale; 3) destinare le risorse che si libererebbero agli investimenti dello Stato, delle aziende e delle famiglie per poter invertire il trend recessionistico e recuperare al più presto quanto è stato perso in termini di Pil in questi cinque anni di crisi drammatica. Ma allora se il presidente Letta ha così chiare sia la natura dei mali che affliggono il Paese e sia quale deve essere la cura, perché non fa ciò deve fare ogni medico che non voglia essere pietoso e quindi recare danno all’ammalato? Il vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno, Angelino Alfano, in difesa del suo superiore, di se stesso e del governo, ripete che il gabinetto Letta è in carica soltanto da 50 giorni e che quindi non si può pretendere tutto e subito. In realtà nessun italiano di buon senso chiede tutto e subito, ma per non trasformarsi in medici pietosi, i ministri non possono indugiare oltre a praticare la cura da cavallo, perché con i piccoli passi e con le dosi prudenti l’ammalato non si salverà. Chiamatelo shock, chiamatelo taglio netto, chiamatelo come faccia più piacere al misurato Letta, ma se entro i prossimi 50 giorni il governo non affonderà il bisturi sul debito pubblico e di conseguenza sulla pressione fiscale, potrebbero materializzarsi le funeste previsioni sull’Italia, formulate dalle agenzie di rating e da alcuni centri di ricerca fortemente a supporto degli speculatori. L’assaggio di che cosa potrebbe succedere, nonostante gli scudi a disposizione del presidente della Bce, Mario Draghi, lo si è avuto con la notizia, fra l’altro non vera, che sul Tesoro pendevano 8 miliardi di possibili perdite per derivati. Su un debito pubblico superiore ai2 mila miliardi, 8 miliardi sono un’inezia, ma su quella teorica perdita la speculazione ha fatto leva, cogliendo altre circostanze favorevoli, per riportare, per fortuna temporaneamente, lo spread sopra ai 300 punti. Il presidente Letta e i suoi ministri devono rendersi immediatamente consapevoli che diluire nel tempo i provvedimenti di taglio dell’Imu per la prima casa e della cancellazione dell’aumento dell’Iva, annunciati nella richiesta di fiducia al Parlamento, è appunto come prescrivere l’aspirina a un ammalato gravissimo. Con misurata soddisfazione dopo il varo del decreto del fare, dopo le decisioni di mercoledì 26 sul lavoro e dopo il vertice del giovedì seguente a Bruxelles (dove si è battuto con decisione per rendere centrale la lotta alla disoccupazione giovanile nella Ue), il presidente Letta ha alzato i toni per dire: ora le aziende devono investire. Sollecitazione giusta, ma da buon economista, egli dovrebbe sapere che: 1) le aziende si orientano a investire solo quando comprendono che il vento o meglio il giro della spirale si è invertito; 2) quando hanno i mezzi propri per gli investimenti o quando percepiscono che il sistema del credito può garantirglieli. Nessuna di queste condizioni oggi esiste e non esisterà per lungo tempo se appunto il governo non affronta le due malattie principali, come Letta giustamente predicava prima di diventare capo del governo. Eppure il momento per cominciare, almeno cominciare, a tagliare il debito e a ridurre la pressione fiscale sarebbe ideale. Il Centro studi della Confindustria ha rilevato che qua e là nell’economia italiana si colgono segni di fine caduta e, più aleatorie, indicazioni di svolta. Quindi è proprio ora che dovrebbe essere cercata dal governo quella spinta decisiva al cambiamento di trend, anche psicologico, che può venire appunto da atti concreti sul taglio del debito e l’abbassamento della pressione fiscale. Atti che possono essere materializzati in più modi: per esempio con l’avvio della vendita del patrimonio immobiliare pubblico, operazione che richiede procedure non semplici ma possibili: il solo annunciare in maniera formale la volontà di farlo e la presentazione di un piano concreto in tal senso possono avere un effetto più che benefico, visto che da anni ormai imprese e famiglie aspettano iniziative simili per poter credere in un riequilibrio dei conti dell’Italia; un’altra via, non certo alternativa ma anzi convergente, è quella dei tagli della spesa pubblica: in 800 miliardi di spesa annuale del sistema pubblico è assolutamente possibile trovare almeno una cinquantina di miliardi da tagliare; si tratta di meno del 10% quando in questi anni di crisi le aziende e le famiglie hanno tagliato altro che il 10% delle loro spese. Ha quindi fatto bene il Corriere della Sera, per la penna specializzata di Sergio Rizzo, a ricordare perentoriamente nell’editoriale di venerdì 28 che «Spendere meno non è proibito», mentre i tagli sono stati finora pochissimi. Se poi si passa sul fronte vendite, anche le privatizzazioni sono state completamente dimenticate, con la scusa che ora si svenderebbe, mentre ci sono alcuni asset che lo Stato potrebbe vendere più che bene. Si prenda la spesa pubblica sanitaria gestita dalle regioni. Nelle scorse settimane è emerso, per esempio, che l’azione del colonnello dei carabinieri, Maurizio Bortoletti, nominato commissario straordinario delle Asl di Salerno, non solo ha azzerato un deficit annuo di decine di milioni, ma ha portato la struttura sanitaria campana in utile. Quante Asl come quella di Salerno ci sono in Italia? Perché non usare la metodologia seguita dal commissario straordinario di Salerno per risanare o anche più semplicemente far spendere meno e in maniera più efficace, decine di altre Asl sparse per l’Italia? E qui si parla di spesa pubblica sanitaria, cioè quella dove il governo, il Parlamento, devono essere più accorti a tagliare, visto che tocca la vita, in senso stretto, dei cittadini. Ma ci sono molti altri settori dove le forbici o il coltello possono essere usati senza tanti complimenti, tale e tanto evidenti sono lo spreco e l’improduttività. Almeno una cosa il presidente Letta dovrebbe fare immediatamente per rispetto dei cittadini-elettori: rendere pubblici sul sito del governo tutti gli studi per il taglio della spesa che sono stati condotti in questi anni. Che fine ha fatto il lavoro dell’ex ministro dei Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda? Che fine ha fatto il lavoro commissionato da Mario Monti a Enrico Bondi, definito il re dei tagliatori e al quale il governo aveva addirittura attribuito la qualifica di commissario straordinario per la riduzione della spesa pubblica? Che fine ha fatto il lavoro di Francesco Giavazzi, chiamato a palazzo Chigi insieme a Bondi, per verificare la possibilità di tagliare i sussidi alle imprese di natura non produttiva? Si deve dedurre che Monti lo aveva chiamato presso la Presidenza del consiglio semplicemente perché in questo modo sperava che le critiche secche del professore della Bocconi al governo sul Corriere della Sera si esaurissero? Giavazzi, in realtà, ha concluso il suo lavoro (lo ha rivelato il suo coautore, Alberto Alesina) addirittura stendendo un disegno di legge che può consentire di risparmiare almeno 30 miliardi; per di più con il sostanziale consenso della Confindustria, che pur di vedere scendere la pressione fiscale per le imprese è disponibile (lo ha dichiarato il presidente Giorgio Squinzi) a rinunciare a quei sussidi, visto che il concetto di sussidio contiene in molti casi un implicito aspetto di assistenzialismo inefficiente. È ora, signor Presidente del Consiglio, il momento di accelerare l’azione: è vero che al lavoro su questo fronte c’è un uomo esperto e preparato come il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, ma anche lui deve accelerare il passo. È facile immaginare che un effetto ben diverso avrebbe l’annuncio secco del taglio, non del rinvio, dell’Imu per la prima casa e la decisione definitiva, invece che il rinvio, di non portare l’Iva al 22%. Anche perché dall’altro fonte fondamentale per il rilancio e lo sviluppo, quello del credito, non giungono affatto notizie confortanti. I lettori di questo giornale hanno già appreso in tanti articoli come le banche italiane siano per solidità le migliori d’Europa, come siano le uniche a non avere in pancia miliardi e miliardi di titoli tossici derivati dai titoli subprime, cioè lo strumento finanziario che ha provocato la grande crisi iniziata nel 2007, mentre le banche dei vari Paesi europei devono ancora smaltire oltre mille miliardi di titoli tossici. Nonostante ciò la Banca d’Italia sta attuando una politica di esasperato controllo e di miope respiro verso il sistema bancario italiano, attraverso l’imposizione di provvedimenti come l’obbligo di svalutare del 47% il patrimonio immobiliare a garanzia dei mutui. Una scelta disastrosa, quest’ultima, che finisce per rappresentare un punto di riferimento per tutto il patrimonio immobiliare italiano e di fatto ne favorisce la svalutazione, mentre la ricchezza degli italiani è per ben il 60% immobiliare. Ma non basta, poiché proprio giovedì 27 la Banca d’Italia, in previsione dell’entrata in vigore (se andrà bene nel 2014) delle regole di Basilea 3, ha cominciato a dichiarare che il sistema bancario italiano ha bisogno di una ricapitalizzazione da 9 miliardi. Ma quale risultato pensa di ottenere la Banca centrale italiana, anticipando così tanto i tempi rispetto alle scadenze (che quasi sicuramente saranno ulteriormente rinviate) se non generare sfiducia nei risparmiatori rispetto agli istituti di credito? Per cortesia, Signor Governatore, un po’ più di prudenza nel parlare, fra l’altro, prima del tempo. Il sistema bancario italiano, lo ammette perfino Bankitalia, è il più solido d’Europa. Sarà quello che si presenterà meglio nel momento nel quale la vigilanza delle banche passeranno alla Bce. Che bisogno c’è di usare sempre parole che generano sfiducia e che sono relativamente inopportune in relazione allo status del sistema bancario degli altri Paesi Ue. Che cosa dovrebbero dire il governatore della banca centrale belga e di quella francese, che devono gestire e risolvere un problema come quello di Dexia, la banca a doppia nazionalità, che impiegherà 63 anni per smaltire gli oltre 280 miliardi di titoli tossici finiti nella sua bad bank? Suvvia un po’ di ottimismo e un po’ di tolleranza! Se tutte le azioni sono solo e sempre al ribasso, dalla crisi non si uscirà. E se il sistema bancario non funziona nella prospettiva della crescita, la crescita non ci sarà, perché senza credito e fiducia nel sistema bancario non si cresce. Allora sì che si moltiplicheranno i miliardi necessari per salvare anche le banche italiane, il cui destino è strettamente legato a quello delle aziende, piccole o grandi che siano. Bene ha detto l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Enrico Cucchiani, in un suo intervento di giovedì 27: nell’Europa del credito vince l’affidabilità. I risparmiatori guardano sempre di più a quanto una banca è affidabile. Se la solidità delle banche italiane (questa è un’aggiunta di questo giornale) viene ridotta dalle parole della banca centrale, certamente invece di progredire si arretrerà P.S. La morte del professor Giuseppe Rotelli, proprietario del più importante ed efficiente sistema di cliniche e ospedali privati d’Italia, non cambia niente nelle prospettive della crisi Rcs. Ben consapevole del suo male, Rotelli aveva deciso da tempo di abbandonare il sogno di una vita di essere, per passione, l’editore del primo quotidiano italiano. Sicuramente per lui è stato un fortissimo dolore dover vendere i diritti dell’aumento di capitale, come ha fatto da quando si è aperta l’operazione. La sua era una vera passione per l’editoria, la più forte fra tutti gli azionisti del condominio Rcs. E il figlio, poco più che ventenne, aveva anch’egli una passione per l’informazione e la cultura altrettanto grande. Ma è stato saggio non esporlo alla gestione di un caso così difficile. Destino del Corriere non riuscire a trovare un editore vero e appassionato. O lo troverà in Diego Della Valle (nonostante il 20% ormai in mano alla Fiat) che quanto a passione per l’editoria ne ha quasi quanto Rotelli? Ma Della Valle sa bene anche fare i conti e calcolare i rischi. Fino a venerdì 5 luglio continueranno la riflessione e l’incertezza. (riproduzione riservata) Paolo Panerai