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 2013  giugno 27 Giovedì calendario

LE DUE ITALIE DI GIGI RIZZI FRA IL ’68 E LA BARDOT

Domenica sera rien­trando a casa ho tro­vato sulla segreteria un messaggio di Gigi Rizzi. Mi ringraziava per un mio intervento a una punta­ta d­i La storia siamo noi a lui de­dicata. Il giorno dopo l’ho ri­chiamato. Abbiamo chiacchie­rato per un po’. Gli ho chiesto: «Quest’estate cosa fai?». «Mah, adesso vado per una decina di gior­ni, con mia moglie Dolo­res, a Saint-Tropez che, a conti fatti, ri­mane un mio luogo di elezio­ne». Poi aveva aggiunto una fra­se che, a risentirla oggi, suona agghiacciante: «E lì festeggerò i miei 69 anni». E c’era una sfu­matura di incredulità nella sua voce, come se fosse sorpreso di essere arrivato a quell’età, per­ché in fondo al cuore, nonostan­te le molte traversie, era rima­sto un eterno ragazzo («c’è voluto del talento per riuscire a invecchiare senza diventare adulti» canta il maestro Battiato su parole di Jac­ques Brel). Il giorno del comple­anno ha bevuto, mangiato, can­tato, ballato, come se Saint-Tro­pez fosse ancora la Saint-Trop degli anni Sessanta. Alla fine del­la serata, un po’ stanco, una tarti­na di caviale in mano un bicchie­re di champagne nell’altra, si è appoggiato al frigorifero. Un col­po di tosse ed è stramazzato al suolo.
Non ho conosciuto Rizzi nei suoi anni ruggenti, quando un breve flirt con Brigitte Bardot aveva fatto di lui un mito, soprat­tutto fra noi ragazzi italiani abi­tuati, checché ne dicessimo, ad andare regolarmente in bianco. Nel 2004 Giangiacomo Schiavi, del Corriere, che ne aveva cura­to l’edizione, mi chiese di fare la prefazione al libro autobiografi­co Io, BB e l’altro ’68 (editore Car­te scoperte) testo che ripropon­go qui ai lettori del Giornale spe­rando che li incuriosisca per­ché, attraverso l’avventura uma­na di Gigi Rizzi, percorre alcune epoche cruciali della nostra vi­ta: il dopoguerra, i «favolosi six­ties» e quel Sessantotto che se­gnò la fine della nostra innocen­za e della nostra joie de vivre.
***
Gigi Rizzi ha ragione quando afferma che il 1968 non fu l’an­no del Sessantotto, cioè dell’ini­zio di quella contestazione gio­vanile che, con i suoi derivati, doveva occupare quasi tutti gli anni Settanta, almeno in Italia, con conseguenze pesantissi­me, ma fu l’anno di Gigi Rizzi.
Il fatto che un giovane italiano si fosse presa la donna più bella, più affascinante, più attraente, più chiacchierata del tempo, il sex symbol per eccellenza, un mi­to, anzi il Mito, venne vissuto co­me una sorta di riscatto naziona­le di un popolo che era da poco uscito dalla povertà, che viveva ancora in uno stato di inferiority complex nei confronti degli altri Paesi europei e in particolare de­gli arroganti cugini francesi allo­ra in grande spolvero soprattut­to nel mondo del cinema che, non avendo ancora la tv preso l’importanza che ha oggi, era quello che dava la grande cele­brità, dove sfornavano registi (la nouvelle vague , Malle, Truffaut, Godard, Clouzot) e divi e di­ve a getto continuo: Alain De­lon, Laurent Terzieff, Jean Paul Belmondo, Jacques Charrier, Jean Sorel, Robert Hossein, Sa­mi Frey, Jean Claude Brialy e, fra le attrici, Brigitte Bardot, Annet­te Stroiberg, Milene Demonge­ot, Catherine Deneuve, Françoi­se Arnoul. Un popolo, il nostro, i cui playboy, meglio latin lover si erano dovuti fino ad allora accontentare di dragare tedesche, legnose, vestite con un infallibi­le cat­tivo gusto e prive di qualun­que sex appeal, ma di coscia faci­le, sui litorali di Rimini e Riccio­ne o sulle Riviere liguri oppure di fare flanella nei night di Mila­no e di Genova (Roma faceva, da sempre, storia a sé) con le entraineuse, cioè con delle putta­ne più o meno di lusso.
Ma fra questa nostra povertà allupata (che, come a voler oc­cultare o in qualche modo sfamare, aveva partorito «maggio­rate», con enormi tette ma com­pletamente prive di talento), e il 1968 c’era stato il boom econo­mico del 1960-1964 che aveva messo qualche soldo in tasca ai nostri ragazzi e anche Gigi Rizzi era uno dei frutti di quel boom, di quel primo benessere diffu­so.
E Rizzi, invece di far la vasca a Nervi o di perdere tempo al Co­vo di Santa Margherita, meta dei milanesi danarosi, bramosi e imbranati, se ne era andato, con alcuni amici, a Saint-Tro­pez e al posto della tedesca o del­la svedese un po’ linfatica, ave­va catturato la più prelibata, la più esclusiva, la più difficile, la più desiderata delle prede: BB, alias Brigitte Bardot, la «nume­ro uno», il cui mito resisteva da una decina d’anni,una che ave­va attirato l’­attenzione dell’indiscusso e schifiltoso guru degli in­tellettuali europei, Jean-Paul Sartre, una di cui Simone de Be­auvoir, che le aveva dedicato un saggio, aveva scritto, testual­mente, nel 1960 «BB merita oggi di essere considerata un prodot­to di esportazione importante come le automobili Renault», una alla quale, caso unico, era stata intitolata una canzone (mi pare da Bob Azam), una per cui tutti spasimavano e deliravano. E quest’idolo, vincendo la concorrenza di attori famosi e di mi­liardari attrezzati con Rolls, Fer­rari e yacht, l’aveva infilzato Gi­gi Rizzi da Nervi, un ragazzo be­nestante ma non ricco, un italia­no quasi qualsiasi.
Rizzi aveva piantato la bandie­ra tricolore nel punto più delica­to e sensibile dell’orgoglio francese. Un trionfo, che equivaleva a una vittoria ai Campionati del mondo di calcio. Qualcosa di co­sì stupefacente da oscurare, per il momento, il Sessantotto.
Gigi Rizzi sbaglia invece quan­do pensa di essere stato, insie­me a quelli del suo giro di ragaz­zi- bene di Milano e di Genova, i Beppe Piroddi, i Franco Repetti, i Poppi Nanni, i Roberto Bassanini e tutti gli altri, l’iniziatore e il protagonista di una rivoluzione dei costumi e sessuale e il prota­gonista di u­na stagione tremen­damente trasgressiva, dissoluta e peccaminosa.
Il breve flirt di Gigi Rizzi con la Bardot, un paio di mesi in tutto, non segnò l’inizio ma la fine di un’epoca, che proprio il Sessan­totto avrebbe chiuso e che era stata aperta una decina di anni prima dai poeti e dagli scrittori della beat generation, Allen Gin­sberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Jack Kerouac, e dal movimento hippy, fermenti che avevano avuto il loro epicen­tro negli Stati Uniti e a Londra (la «swinging London» dei Beat­les, di Mary Quant e della mini­gonna) e che si erano poi diffusi in tutta Europa, ad Amsterdam, a Berlino,a Ibiza e, da ultimo, anche in Italia. Erano stati quei mo­vi­menti a scardinare i vecchi co­stumi, peraltro in modo soft e in­cruento, e a portare anche a livel­lo ­di massa una certa libertà ses­suale. E quei movimenti, pur es­sendo principalmente esisten­ziali, avevano anche un sotto­fondo politico e antiborghese a cui Gigi Rizzi e i suoi amici rima­sero sempre del tutto estranei. Di politica erano digiuni in mo­do quasi scandaloso, per i tem­pi. Erano ragazzi di buona fami­glia, benestanti, che si trovaro­no ad approfittare del vento nuo­vo, senza nemmeno capire be­ne che cosa fosse. Come menta­lità erano­ ragazzi degli anni Cin­quanta trapiantati nei Sessanta.
Avevano infatti, di fondo, la mentalità e i gusti dei loro padri. Impazzivano per le calze «con la cucitura in rilievo alla Marlene Dietrich», per le calze a rete, per le giarrettiere, per le mutandine di pizzo, tutte cose che erano scomparse da tempo dal costu­me, perché le ragazze andava­no in giro in modo più disinvol­to, senza più l’armatura delle stecche di balena, delle spalli­ne, del gros grain e, appunto, del­le giarrettiere e delle calze a rete, vestivano in jeans e t-shirt (era stata proprio Brigitte Bardot a inaugurare questa moda), e an­che se si scatenavano nel rock amavano in realtà le canzoni un po’ melense da piano bar e da ni­ght c­he a quell’epoca erano con­siderati dai giovani luoghi per adulti un po’ laidi.
In fondo è un po’ come se, con la permissività sessuale, Rizzi e i suoi amici avessero realizzato un sogno. Che non era però, nei modi, nei gusti, nelle tendenze, un sogno loro o della loro gene­razione, ma quello dei loro pa­dri, castrati da costumi troppo severi e dai rigori del dopoguerra. Una rivincita postuma. An­che se giovanissimi quei ragazzi erano in un certo senso già vec­chi, dei goliardi in ritardo. Non lo sapevano, anzi pensavano il contrario, ma erano fuori dal lo­ro tempo che stava girando in tutt’altra direzione.
I Sessanta si sono creduti mol­to peccaminosi e trasgressivi. Furono invece anni molto solari e sostanzialmente innocenti. Un intermezzo gioioso, un tempo di sospensione, fra la durez­za economica dei Cinquanta e quella ideologica dei Settanta. C’è una fotografia che, secondo me, sintetizza quegli anni. Riguarda ancora Brigitte Bardot, che dei Sessanta è stata il simbo­lo e che già allora - è bene ricor­darlo perché non credo sia ca­suale - era salutista, igienista e vegetariana. L’affascinante Laurent Terzieff (Peccatori in blue jeans) in piedi, a torso nudo, con l’acqua del mare che gli arriva al­le ginocchia dei jeans, porta a ca­valcioni, sul collo, come una bimba, una Brigitte Bardot sola­re, anch’essa in jeans e t-shirt bianca. È l’emblema della gra­zia, della giovinezza, della bel­lezza degli anni Sessanta e della loro innocenza. Non c’è mali­zia. Non c’è peccato. È semplice­mente gioia di vivere, voglia di vivere («fate l’amore e non la guer­ra»).
Anche se beve whisky, gioca a poker e ama la notte, come tutti i giovani bennati l’hanno sempre amata, anche Gigi Rizzi è un uomo solare e si getterà in quel miracoloso e stretto pertugio aperto fra i Cinquanta e i Settan­ta con voracità, con tutta la sua enorme vitalità, con la sua simpatia istintiva, col suo charme naturale, con l’eleganza del ra­gazzo educato bene. E anche con una gran dose di ingenuità. Gigi Rizzi, con tutta la sua esube­ranza un po’ incosciente, è, e ri­marrà sempre, un «bravo ragaz­zo», un po’ sprovveduto, nono­stante tutto. C’è sempre in lui una sorta di stupore. Il suo stes­so successo con le donne (e ne avrà una serie infinita di bellissi­me, da Silvia Casablanca alla mi­tica Verushka a Nathalie Delon) in fondo lo sorprende. Ed è forse questa freschezza la ragione più profonda del fascino che eserci­ta, ed eserciterà sempre, su di lo­ro. Le donne saranno, forse, me­no innocenti con lui.
C’è sicuramente molta sven­tatezza in quei ragazzi golosi di vita, vogliosi di primeggiare, di farsi vedere, di esibirsi, di fare un po’ gli spacconi, di gareggia­re alla pari con i Casanova internazionali, carichi di miliardi, e di batterli. E un certo rimescola­mento di carte e di classi, tipico dei Sessanta, permette di sogna­re ogni avventura. I locali sono «esclusivi» per modo di dire. Ci entrano tutti, basta volerlo e sa­perci un po’ fare. La voglia di vi­vere conta, in qualche caso, più dei miliardi, nei «favolosi six­ties».
C’è molta sventatezza in quei ragazzi. Ma non c’è cinismo. Quello che alberga già, invece, in un’altra categoria di giovani borghesi che sta per venire alla ribalta, i ragazzi del Sessantot­to, più scaltri, più avveduti, mol­to meno innocenti. E infatti mentre i leader del Sessantotto monetizzeranno quella loro sta­gione diventando direttori di quotidiani e settimanali, anchorman televisivi, uomini poli­tici, Rizzi e i suoi amici, passato il momento di euforia, si ritrove­ranno, quasi tutti, sul pavé.
Ho la stessa età di Gigi Rizzi. Siamo nati entrambi nel 1944. E sono anch’io di estrazione borghese. Conosco bene l’humus in cui si sono formati, per così di­re, sia i contestatori che i Gigi Riz­zi o aspiranti tali. Alcuni di quel­li che Rizzi nomina nel suo libro li ho incontrati più volte. Non pe­rò al night o dietro le sottane, ma al tavolo del poker (perché a me il poker - e il gioco in genere - è sempre interessato più delle donne). In quegli anni mi diver­tivo a spennare i ragazzi della Milano-bene, che, anche se se la davano da duri, erano troppo sventati e sprovveduti per esse­re dei buoni giocatori. Erano dei bambinoni, degli eterni fanciul­loni che si rifiutavano cocciuta­mente ­di crescere cercando di ti­rarla per le lunghe il più possibi­le. Qualcuno di loro lo si può ri­trovare ancora, nei soliti luoghi, a fare le stesse cose, lo sguardo infantile di sempre in occhi che sono però sperduti, smarriti in corpi inesorabilmente avvizzi­ti. Se Gigi Rizzi non ha fatto la fi­ne del playboy invecchiato ma­le è perché in lui c’era, oltre a tut­to il resto, anche un’inquietudi­ne autentica. «Ventiquattro ore al giorno dedicate alle donne, al gioco, all’alcol e al divertimen­to. Un professionista del nulla per essere chiari» scrive il Gigi Rizzi negli anni Novanta. Ma il sospetto che quella vita ruti­lante fosse, in definitiva, senza senso lo ha già an­che il Gigi Rizzi degli anni Sessan­ta, nel momento dei suoi massimi furori. Capisce che il giro donne-­whisky- gioco-di­vertimento-not­te, ripetuto fino all’estenuazione, diventa un’abitu­dine ossessiva, una coazione, un timbrar il cartell­i­no come un altro.
Anche se non è in grado di sfuggire al meccanismo Gigi Rizzi sa, già allora, che la vita vera non è quel­la, che la vita sta altrove. In Gigi Rizzi, come lui stesso scrive, son­necchia sempre un altro Rizzi, Luigi, il ragazzo di buona fami­glia, educato secondo i più sani principi, che il padre voleva diri­gente d’azienda, con una vita normale. Gigi non farà il dirigen­te d’azienda e non avrà una vita normale - perché questa non era la sua storia - ma, attraverso un duro apprendistato, pagato a prezzo carissimo sulla sua pel­le, riuscirà, a differenza di tanti suoi compagni di avventure gio­vanili, a diventare un uomo. E di questo suo padre sarebbe stato sicuramente contento, se aves­se avuto il tempo di vederlo.
Il 1968 fu l’anno del massimo trionfo di Gigi Rizzi, ma fu an­che l’anno dell’inizio della fine della sua straordinaria carriera di playboy. C’è anche una demo­tivazione oggettiva. Dopo Brigit­te Bardot, che altro? Ogni zenit contiene già in sé, inesorabil­mente, un crepuscolo. Ma le ra­gioni più profonde sono altro­ve. I «favolosi sixties» erano fini­ti e il colpo di grazia glielo aveva dato proprio il Sessantotto. Il cli­ma si è fatto cupo, plumbeo. Ar­rivano anni difficili e i protagoni­sti sono altri. La figura del play­boy diventa decisamente démo­dé. Inoltre il Sessantotto stava af­fossando defin­itivamente gli an­ni Cinquanta che i Sessanta ave­vano scalfito solo in superficie, esclusivamente sul piano del consumo. Ora i giovani conte­stano il lavoro, la trasmissione del sapere, la gerarchia fra gene­razioni, cioè il nucleo più pro­fondo dei valori della borghe­sia. Non sono più i teneri ribelli de­gli anni Sessanta, che disubbidiva­no ai genitori ma ne temevano il giudizio, che li contestavano continuando pe­rò a rispettarli, chiamandoli, con affettuosa iro­nia, «i matusa», adesso pretendo­no di e­ssere dei rivoluzionari.
Anche il sesso e le sue vicende non passavano più per la crona­ca mondana ma per quella politi­ca. Mauro Rosta­gno, uno dei capi di Lotta continua che sarà assassi­nato in circostan­ze misteriose in Sicilia, uno dei pochi di estrazio­ne proletaria in un movimento di borghesi, confesserà in segui­to di aver f­atto il leader soprattut­to per scoparsi le ragazze. Le più belle erano passate a sinistra, area con la quale Gigi Rizzi e i suoi compagni, antropologica­mente, anche se non sempre po­liticamente, di destra, non ave­vano nulla a che fare. Si sussurra­va che Mario Capanna, il «líder máximo» del Movimento stu­dentesco, avesse una relazione segreta con Giulia Maria Cre­spi, «la zarina», la padrona del Corriere della Sera . Non era ve­ro, ma era un segno dei tempi.
Gigi Rizzi lascia Milano, scon­volta da piazza Fontana, dalla morte di Annarumma, dall’au­tunno caldo, dai cortei studente­schi, dai moti di piazza, per ten­tare un inserimento a Roma. La scelta, fatta d’istinto, non è in sé sbagliata. Sessantotto o non Ses­santotto Roma resta sempre la stessa, è eterna nei suoi vizi. Ma Roma è una realtà infinitamen­te più difficile di Milano o di Sa­int- Tropez, che erano stati luo­ghi di pastura di Gigi Rizzi. Ro­ma attrae, ingloba e illude. È una Fata Morgana. Gigi ci lasce­rà le ultime penne inseguendo la sirena del cinema.
Da questo momento - siamo nei primi anni Settanta - quella di Gigi Rizzi cessa di essere una storia generazionale, sia pur di spicchio, di una generazione, e diventa una vicenda del tutto personale. Rizzi non era mai sta­to un rivoluzionario, seppur fin­to, come i «sessantottini», ma non era mai stato nemmeno un vero ribelle. Era solo un ragazzo assetato di vita che nel clima dei Sessanta aveva trovato il terre­no più favorevole per la sua esu­beranza. Ora, a trent’anni, è un giovane che si è molto dissipato e che è alla ricerca di se stesso. Prova a ritrovarsi recuperando proprio i valori dei padri, il lavo­ro e la sua dura disciplina, laddo­ve i «sessantottini» cercheran­no e troveranno tutte le scorcia­toie per arrivare, facendo di una rivoluzione fallita il loro trampo­lino di lancio.
Gigi Rizzi lascia l’Italia, dov’è ormai un pesce fuor d’acqua, non solo come playboy, e parte per l’Argentina. Con i soldi di fa­miglia che gli sono rimasti, do­po i molti scialacquii, compra in una landa abbastanza desolata un terreno incolto, tutto da dis­sodare e da lavorare. Vuole ritro­vare il giorno, una vita sana, sere­na, un po’ di solitudine dopo tan­ti anni di caciara, il lavoro, il rigo­re. Lo aiuterà, come sempre, una donna. Si chiama Stella, na­turalmente è bella, ma non è Bri­gitte Bardot. È una donna vera e non un’icona dell’immaginario collettivo. Gigi se ne innamora sul serio e lei pure. Fanno tre fi­gli. Questa vita quieta, regolare, felice, all’aria aperta va avanti per una decina di anni, senza in­toppi. Fino a quando non si po­ne il problema degli studi dei fi­gli e la coppia si trasferisce a Bue­nos Aires.
Buenos Aires non è la campa­gna argentina, è una grande cit­tà piena di tentazioni. La fama di playboy di Gigi Rizzi è arriva­ta fin là. I giovani dandy del luo­go lo stuzzicano, lo provocano, lo sfidano. Lui sente il richiamo della foresta e torna agli antichi vizi di cui uno solo, per la verità, era tale: la cocaina. Non che «sniffare» fosse una prerogativa degli anni Sessanta, era, da sem­pre, un modo di vita dei grandi ricchi. Rizzi, nella sua ascesa di playboy, era arrivato a frequen­tare anche quei giri e, sia pur con un’iniziale titubanza, aveva inglobato anche la cocaina, in­sieme alle donne, al whisky, al poker e alla notte, convinto, co­me tutti sempre lo sono, di poter­sene liberare quando avesse vo­luto.
E in effetti, nei dieci anni in cui era stato felice con Stella, in cam­pagna, anche la cocaina era scomparsa dalla sua vita insie­me a tutto il resto. Ma le ricadu­te, si sa, sono devastanti. Luigi Rizzi, tornato Gigi, si infogna con la droga e finisce in un cen­tro di recupero per tossicodipendenti.
Gigi Rizzi ce la farà a tirarsi fuo­ri e ancora una volta sarà una donna, Dolores, che poi divente­rà sua moglie, a metterci uno zampino. Troverà un lavoro, non esaltante, ma che gli con­sente però di mantenersi deco­rosamente e tornerà in Italia, a Nervi, nel guscio protettivo da cui era uscito una quarantina di anni prima carico di grandi spe­ranze.
Avendo saputo che scrivevo questa prefazione Gigi Rizzi mi ha telefonato. «Adesso apprez­zo altre cose. Avevo vissuto quat­tro anni a Roma e non ero mai entrato a San Pietro. Ci sono sta­to poco tempo fa, con Dolores. Oggi sono in grado di godere di un concerto, di una mostra, del­la lettura di un libro. Tutte le co­se hanno le loro stagioni. È inuti­le e patetico ruggire fuori tem­po».
«Che cosa è rimasto dell’anti­co Gigi Rizzi?» gli ho chiesto. «Beh, forse il fatto che mi domando ancora: cosa farò da grande?».