Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 27/6/2013, 27 giugno 2013
DERIVATI SEGRETI SUL DEBITO: I MISTERI DEL COSTO OCCULTO
I conti dello Stato sono a rischio a causa delle perdite nascoste dei contratti derivati sul debito pubblico? La Procura di Roma apre un’inchiesta dopo gli articoli pubblicati ieri da Repubblica e Financial Times che, coordinandosi, hanno rivelato un rapporto segreto trasmesso dal ministero alla Corte dei conti sui contratti derivati aperti sul debito. “Tesoro, perdite potenziali di almeno otto miliardi dai derivati degli anni 90”, titolava Repubblica . “Un audit rivela come Roma ha abbellito i conti per entrare nell’euro”, annunciava il Financial Times. Il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni replica subito: “È un grande malinteso, non c’è nessuna perdita”. L’inchiesta della Procura non è sul buco, ma sugli articoli e su come i giornalisti abbiano avuto accesso a documenti in teoria segreti. La storia è complessa e va raccontata dall’inizio.
IL 3 GENNAIO 2012 il ministero del Tesoro trova un accordo con la banca americana Morgan Stanley: per colpa di una clausola di un contratto aperto nel 1994, che l’Italia non è riuscita mai a rinegoziare, il Tesoro si trovava a dover scegliere se aumentare le sue garanzie per tenere aperto il derivato o pagare una somma una tantum per rompere il contratto. Il governo Monti sceglie questa seconda ipotesi e paga a Morgan Stanley 2.567 miliardi di euro. Una cifra consistente che, assicura il Tesoro, era però il male minore. Quando la notizia emerge, il governo Monti manda in Parlamento a leggere la relazione Marco Rossi Doria, sottosegretario all’istruzione ed ex maestro di strada, non proprio un esperto di finanza. Secondo quanto riporta Repubblica, il conto a Morgan Stanley – guidata in Italia proprio da un ex ministro del Tesoro, Domenico Siniscalco – è salito ancora, per altri 527 milioni di euro. La Corte dei conti “nel mese di marzo 2013, tramite la Guardia di Finanza, ha chiesto la documentazione inerente alla sola attività di chiusura di un gruppo consistente di operazioni con Morgan Stanley”, come spiega un comunicato di ieri del ministero del Tesoro.
DA VIA XX SETTEMBRE hanno mandato una relazione sulle posizioni in derivati che coprono circa 160 miliardi di euro su 2.000, dato questo però poco significativo, perché un certo “nozionale” (cioè la grandezza sottostante al contratto) può causare perdite rilevanti a prescindere dalla sua entità. Repubblica e Financial Times spiegano che gran parte di questi contratti sono stati realizzati negli anni Novanta quando al ministero del Tesoro c’era, come direttore generale, Mario Draghi, oggi presidente della Banca centrale europea (il derivato Morgan Stanley, però, risale alla sua gestione, tra 1991 e 2001, anche se dopo la sua apertura nel 1994 è stato poi ristrutturato). Secondo quanto riferisce al Fatto una fonte vicina al dossier, in realtà nella relazione del Tesoro alla Corte dei conti non c’è questa informazione. Repubblica e Financial Times, riferiscono gli articoli, hanno affidato “all’analisi di provati esperti del settore, che hanno montato i numeri sui modelli matematici standard che il mercato utilizza per ’prezzare’ questi derivati”. Risultato: 8 miliardi di “perdita potenziale”. In realtà questo è un concetto che è difficile applicare ai derivati che sono scommesse. Lo scopo del Tesoro, quando stipula un derivato, è stabilizzare il costo del debito. Se si assicura contro un rialzo dei tassi significa che se i costi aumenteranno (per la perdita di fiducia nell’Italia, perché la Bce alza il costo del denaro, per shock sul mercato...) la differenza ce la rimetterà la banca partner. Se invece i tassi scenderanno, nella scommessa ci rimetterà lo Stato italiano, che si può trovare in debito verso la banca, ma che venderà sul mercato i titoli di debito a un tasso più basso. Insomma, la fotografia mark to market dei derivati, cioè capire se ad oggi lo Stato sta vincendo o perdendo, fornisce un’informazione poco utile. Domani le cose possono cambiare, per esempio se la Bce alza o abbassa i tassi. E il risultato varia di conseguenza.
QUELLO CHE CONTA sono soltanto i soldi veri che lo Stato guadagna o ci rimette alla chiusura del contatto e li censiscono Istat ed Eurostat: fino al 2005 l’Italia ha guadagnato dalle scommesse sul debito, poi ci ha rimesso (l’“assicurazione” per stabilizzare i tassi si è rivelata molto costosa, forse troppo): nel 2012 abbiamo pagato quasi 2 miliardi di euro.
Il dipartimento del Tesoro, guidato da Maria Cannata, protegge i derivati con una rigorosa segretezza con la duplice motivazione di tutelare l’interesse nazionale e che si tratta di accordi bilaterali con le banche. Un po’ di confusione è inevitabile. E in questi giorni di mercati nervosi, alla vigilia di un Consiglio europeo in cui l’Italia ha bisogno di tutta la credibilità possibile per ottenere qualche aiuto dall’Europa, il danno di informazioni sbagliate o parziali può essere rilevante.