Silvia Bizio, D la Repubblica 22/6/2013, 22 giugno 2013
SUPER SEAN
[Intervista a Sean Penn] –
Da ragazzo faceva a botte con i paparazzi, o meglio li prendeva a botte, perché lui era già abbastanza carismatico e famoso da potersi permettere tutto.
E ora che l’ex enfant terrible di Hollywood sta per compiere cinquantatre anni, il 17 agosto, continua a fare a botte, ma con tutto ciò che non gli piace nel mondo - guerre, disastri naturali, povertà e ingiustizie, dall’Iraq a Haiti, dal Sudamerica all’America bigotta - usando come armi contundenti la passione e le idee, e come credenziali 44 film girati da attore, sei da regista, due premi Oscar (per Mystic River e Milk), una miriade di documentari (da quello contro l’embargo a Cuba a quello sul Venezuela di Chavez). E come combustibile una riserva di energia che sembra inesauribile.Con un titolo appena uscito (il thriller noir Gangster Squad), uno a fine lavorazione (la commedia di Ben Stiller The secret life of Walter Miller) e almeno tre progetti in corso, ai primi di giugno Sean Penn ha trovato il tempo di correre la mezza maratona di Port-au-Prince come testimonial della raccolta di aiuti per l’isola, e sponsor della partecipazione dei vincitori locali alla prossima maratona di New York.
Sarà che le sue quotazioni come star e come autore non sono mai state così alte. Sarà che i due figli (una femmina e un maschio, avuti con l’attrice Robin Wright, chiamati Dylan e Hopper in onore del poeta Dylan Thomas e dell’amico Dennis Hopper), sono diventati ormai maggiorenni, e che lui è di nuovo single, dunque più libero, dopo il divorzio con Robin alla fine di un altalenante, appassionato, litigioso rapporto ventennale. O sarà che da una crociata all’altra l’adorabile bastian contrario ha affinato i suoi bersagli e con i temi ecologici di Into the Wild e la biografia di un eroe politico contro la discriminazione dei gay in Milk ha trovato anche una nuova profondità.
«La contraddizione è ciò che ci definisce come esseri umani, siamo tutti fallibili, ma anche perfettibili, come diceva Jean-Jacques Rousseau. La perfezione non esiste, ma per me l’importante è cercare l’essenza della verità che ci permetta di crescere come specie. Non la verità assoluta, che diventa una scusa per il fanatismo, la manipolazione dell’o- pinione pubblica, ma una piccola, umana verità che si opponga all’oppressione dei grandi sistemi». Perché i tre elementi - le donne, il cinema, la poltitica - nella vita di Penn sono così intrecciati da scandirne insieme le tappe.
HO SPOSATO UNA STELLA
Nel 1985, quando Sean Penn e Madonna si incontrano, lui è già noto per una manciata di film, e come icona giovanile di culto per l’adesione pefetta al personaggio di Jeff Spiccioli, il surfer perennemente fumato della commedia liceale Fuori di testa. Figlio d’arte (la madre è l’attrice di teatro Eileen Ryan; il padre, Leo Penn, autore e regista), Sean in famiglia ha ereditato non solo il talento ma anche l’anticonformismo politico. Leo Penn era finito nelle famigerate “liste nere” del maccarthismo, e davanti all’Un-American Activities Committee aveva rifiutato di fare i nomi dei presunti comunisti di Hollywood: per anni era stato così costretto a lavorare dietro falso nome. Madonna, invece, ricorda Sean Penn, era già Madonna. E quando, dopo due mesi di flirt, i due si sposano, anche per Sean arriva la fama da tabloid: «Lei stava diventando allora una superstar, Like a Virgin era appena uscito. Io volevo solo fare i miei film e starmene in pace e nascosto. Ero uno sempre arrabbiato, ribelle e incazzato, senza una causa apparente. Ero tormentato da demoni interiori, e ammetto che era impossibile convivere con uno come me». Fanno infatti appena in tempo a recitare insieme in uno dei flop più clamorosi degli ultimi anni, l’inguardabile Shanghai Surprise, che nel 1987 il matrimonio naufraga tra liti, botte coi paparazzi e un’accusa di violenza domestica: «Mi sono comportato peggio di lei, davvero non mi sento di biasimarla più di tanto. Lei era per natura esibizionista, io troppo ombroso (ora lo sono meno). Non era una combinazione di caratteri che potesse durare. Gli opposti attraggono, è vero: ma solo per un po’. Sono rimasto affezionato a Madonna, ma quando hai ventiquattro anni è difficile distinguere tra una passione passeggera e un impegno vero». Il divorzio arriverà poi, nel 1989.
FIAMME SU HOLLYWOOD
Dopo la separazione, le loro carriere decollano. Per Sean arrivano il thriller sulle gang a Los Angeles Colors, diretto da Dennis Hopper e Vittime di guerra e Carlito’s Way di Brian De Palma, accanto ad Al Pacino. Penn affascina pubblico e critica, molti a Hollywood lo considerano difficile, scostante, uno dal temperamento impossibile, ma dicono anche che un film ci guadagna, se lui è nel cast, perché sul set porta ogni volta intelligenza, curiosità e l’ossessiva ricerca del personaggio.
Subito dopo la fine delle riprese di Carlito’sWay, nell’autunno del 1992, nella vita di Penn c’è un altro episodio singolare e cruciale. Divampa un enorme incendio che devasta i canyon di Malibu e rade completamente al suolo la sua villa sulle colline di Carbon Canyon. Invece di trasferirsi in una delle sue altre proprietà a Los Angeles, Penn, che si era al momento diviso da Robin Wright (la prima figlia era nata da poco, in vent’anni di relazione le loro separazioni e riconciliazioni si alterneranno spesso, passando per il matrimonio nel 1996 e finendo col divorzio due anni fa), installa tra le rovine della casa una roulotte Airstream e vive lì, da solo, per circa un anno. Chi è andato a trovarlo in quei mesi, ricorda un Sean Penn che anticipava quasi Into the Wild, il suo più recente film come regista: spoglio di ogni avere, libero, selvaggio, soddisfatto e arrabbiato insieme, andava in giro per la proprietà bruciata con un fucile in spalla, divertendosi a sparare sulle bottiglie vuote di tequila scolate la sera prima.
«È stato un periodo di trasformazione, per me», spiega ora l’attore. «Vittima di una calamità naturale, avevo il bisogno di starmene da solo, anche a ripensare le fesserie fatte fino ad allora. Mi ha aiutato molto a crescere. Dopo, ho ritrovato anche una pace familiare che non avevo mai conosciuto prima. Sono maturato all’improvviso. Credo di aver lavorato no-stop, uscendo da quell’anno vissuto nell’Airstream come un fottuto clochard».
HAITI VAL BENE UN IMPEGNO
In Into the Wild, tratto nel 2007 dal libro di Jon Krakauer sulla vera vicenda di un giovane intellettuale che rinuncia a ogni avere e cerca se stesso, fino alla morte, nella natura selvaggia dellAlaska, c’è probabilmente qualche traccia della rivolta personale di Penn contro la norma sociale e le ipocrisie della “borghesia”. E del suo scetticismo anarchico verso il potere. La differenza non dappoco, e una di quelle contraddizioni che fanno parte del carisma del personaggio, è che la scena selvaggia originale si svolgeva ora sulla cima di una collina hollywoodiana circondata dalle ville delle star. Penn è un tipo “alla Kerouac”, ma con molto denaro, il suo on-the-road convive con l’agiatezza anche mentre si proclama antisistema. Qualcosa di più e di diverso dalle crociate politiche intraprese da Sean Penn contro la guerra in Iraq (quando i detrattori lo chiamarono “Baghdad Sean”, quasi una caricatura di “Hanoi Jane”, la Fonda militante contro la guerra in Vietnam) o contro l’embargo a Cuba (occasione in cui il senatore repubblicano della Florida Marco Rubio, fervente anticastrista, lo definì «traditore della patria»), succede nel 2010 con il terremoto, e poi l’uragano, di Haiti. Sean Penn fin dal primo momento è in prima fila per gli aiuti, contribuisce personalmente e la sua fondazione umanitaria J/P Haitian Relief Organization raccoglie centinaia di migliaia di dollari. Nel 2012 visita di persona i campi d’emergenza con la regina dei talk show tv Oprah Winfrey, e foto e documentari sulla tragica realtà della miseria e dei ritardi nei soccorsi fanno il giro del mondo. «Non gliene frega niente a nessuno dei poveri haitiani, forse perché non hanno petrolio», dichiara Penn. «La mia missione è assicurarmi che i fondi raccolti per aiutare questo disastrato paese giungano davvero alla gente bisognosa. Perché nemmeno delle organizzazioni caritatevoli ci si può fidare. Avidità e inganno speculano perfino sulle miserie altrui».
DI NUOVO SINGLE
Negli stessi anni, sul set Penn inanella i suoi successi più recenti, da L’albero della vita di Malick a This Must be the Place di Sorrentino. Oggi vive tra la baia di San Francisco e una villa a Malibu. Ma niente di grandioso: «Mi sono comprato pure una casetta ad Haiti, allarghi le braccia e tocchi tutte le pareti. Dormo sul divano letto, e sono felice quando sono lì». Fa spesso l’opinionista per la grande stampa ( lo scorso anno in un lungo articolo sul Guardian ha attaccato la politica inglese sulle Falkland) e sembra avere le idee chiare su molte cose. Anche sugli Oscar, del resto: «L’orrore dei premi Oscar è tutto il bailamme che la stampa e i media ci imbastiscono intorno, per farne un super show televisivo da grande ascolto, come il Super Bowl o lo sbarco sulla Luna. Ma quello che ne viene fuori è solo il braccio di ferro tra gli attori rimasti in gara, come il Grande fratello. Andiamo, non è così che dovrebbe essere: io rispetto molto l’industria del cinema e queste serate, ma ogni volta finisco per sentirmi terribilmente imbarazzato, specie quando mi premiano».
Ora è tornato single, l’appassionante Penn, e con gran discrezione si intrattiene con bellissime donne. Conserva un affetto speciale per la sua seconda moglie: «Robin è una donna, compagna, amante, madre straordinaria», ha riconosciuto di recente. «Non mi meritavo una come lei. L’ho fatta soffrire. Sono un po’ migliorato con l’età, ma non abbastanza, tendo ancora all’irascibilità. Quando recito e mi butto a capofitto in un ruolo, o dirigo un film, mi sfogo, canalizzo nella creatività tutte le mie rabbie e insicurezze, è un atto catartico che mi fa sentire meglio. Mi sento bene anche quando viaggio, e mi coinvolgo con la stessa furia in cause politiche, sociali, umanitarie. L’indignazione è il sentimento che mi tiene insieme, e mi fa sentire sano. Il resto di me, meglio non chiedermelo».