Michele Smargiassi, Il Venerdì 28/6/2013, 28 giugno 2013
CHAPLIN SEGRETO
BOLOGNA. La sera del 31 luglio 1916, in un albergo di Los Angeles, Charlie Chaplin si sente più solo di Charlot il vagabondo. Nessuno l’ha mai visto così giù. Chiama la Western Union e spedisce a New York un telegramma disperato: «Questo film non mi viene proprio». Come sempre, fin da quando faceva la fame sul marciapiede, il suo salvagente è Sydney, il fratellone buono, l’alter ego discreto e paterno del gigante dello schermo. Lo implora: «Buttami giù subito delle gag e scrivimele per telegramma». Chaplin ha 27 anni, ma è già all’apice della sua fortuna: bello, famoso, ricco, conteso dai produttori e dalle donne. E molto stressato. La Mutual Film, per contratto, vuole da lui ogni mese un film di due rulli. Lui ha promesso una storia su un finto conte che seduce una ricca ereditiera, ma si è impantanato. Tom Harrington, il suo assistente di fiducia, è allarmato: «Charlie è depresso da due settimane, non combina nulla», telegrafa anche lui a Syd, «lascia perdere tutto, prendi il primo treno e corri qui, ha bisogno di te. E non dirgli che te l’ho detto io».
Alla fine, il film lo consegna in tempo. Ma non è Il Conte. È One A.M., la comica che i critici oggi considerano un capolavoro sperimentale, mezz’ora di one man show, solo davanti alla cinepresa, è la storia di un ubriaco che rientra all’una di notte e ingaggia una lotta furibonda con gli oggetti di una casa trasformata in una giungla ostile. Bene, ora sappiamo che quel pezzo di bravura fu probabilmente l’improvvisazione di un genio con le spalle al muro, il virtuosismo disperato e strepitoso dell’ultimo minuto. Il 7 agosto, esausto, Charlie scrive ancora a Sydney: «L’ultimo film è stata una disperazione, ma adesso ti prego molla tutto e vieni ad aiutarmi».
C’è sempre un’altra storia nei carteggi della storia, c’è sempre un altro uomo nei cassetti di un grande uomo. Quello che Cecilia Cenciarelli ha conosciuto lavorando per dieci anni sul suo archivio privato forse è ancora più grande del suo mito: «Quel che sembra sgorgare direttamente dai piedi o dai muscoli del suo corpo di funambolo, senza passare dalla testa, viene in realtà da grandi ripensamenti, stalli, crisi creative. È come aver trovato la sua terza dimensione». E adesso è giunta l’ora di raccontarla. Oltre 170 mila pagine, lettere, copioni, fotografie, sono finalmente ordinati, datati, schedati. Composto senza clamore, il Dossier Chaplin è terminato, e il 3 luglio la Cineteca di Bologna lo renderà pubblico con una serata succulenta per i cinefili, al cinema Lumière. Un Chaplin inedito regalato all’umanità.
Poteva anche non accadere. Quando nel 1952 i maccartisti cacciarono dagli Usa uno dei loro più grandi artisti, Chaplin dispose che il suo archivio rimasto a New York fosse distrutto. Per fortuna Sydney, il saggio lungimirante Syd, si oppose. Casse e casse di carte seguirono Charlie nell’esilio europeo. Dove l’unico a frugarci, ma solo in parte, fu il suo maggior biografo, Kevin Brownlow. Le riscoprì Gianluca Farinelli, il direttore della Cineteca di Bologna, al cui laboratorio d’eccellenza, Il cinema ritrovato, gli eredi Chaplin affidarono il restauro di tutti i suoi film, anch’esso ormai completato. E ottenne il permesso di portare qui a Bologna e recuperare anche quel caos di carta e polvere.
C’è dentro, davvero, un Chaplin che non vi aspettate. Umorale, tenero, depresso, euforico, dolce. E furbissimo. Molti episodi sono da riscrivere. Come la nascita della United Artist, la casa cinematografica indipendente che Chaplin fondò nel 1919 assieme a Douglas Fairbanks per liberarsi della tirannia delle major. Bene, è una vera spy story. Eccovela. Syd ha saputo che gli heavy weights, i pezzi grossi di Hollywood, tramano contro Charlie. Trovano le sue pretese troppo alte, vogliono «fare cartello» contro di lui, fargli abbassare la cresta. Si vedono segretamente 1’8 gennaio 1919 all’hotel Alexandria di Los Angeles. E Chaplin agisce. Organizza un vero Watergate. Noleggia due investigatori privati e li manda a spiare. Abbiamo i rapporti dattiloscritti di Operator #5 e Operator #8. Perfetti. Orari, descrizioni, dettagli. Nomi: Adolph Zukor, Samuel Goldwyn, Benjamm Schulberg, i padroni della celluloide. I due spioni origliano: «Chaplin è un problema, vuole un sacco di dannati soldi», «È Doug il tipo tosto», «Sono stufo di questo gioco». La trappola è pronta a scattare. Ma Chaplin gioca d’anticipo: convoca una conferenza stampa, nello stesso hotel, e annuncia che da ora in poi si produrrà i film da solo. Papaveri scornati, Chaplin fa tremare Hollywood, non glielo perdoneranno.
Le carte non sono carne viva, certo, ma sono indizi di vita. Un mare di indizi per una vita dietro la maschera, la bombetta, i baffetti. Ecco ancora un Chaplin malinconico, a Londra, anni Cinquanta: gira il suo primo film d’esilio, Un re a New York, ma a Syd confessa di sentirsi «come un attore alle prime armi». Ecco le sue donne, tante, i suoi amori tutti travolgenti, ecco una lettera ardente, anche nel colore rosso dell’inchiostro, a Edna Purviance, la meno vendicativa delle sue sedotte e abbandonate; a differenza di Joan Berry che lo portò in tribunale per una paternità negata, della quale invece spuntano i provini e il copione di un film che lui aveva pensato per lei, Shadow and Substance, non realizzato, che però piacque a Rossellini (di cui ci sono anche le lettere). E l’album mai visto del viaggio (in Asia) di nozze (segrete) con la terza moglie Paulette Goddard, dove ogni foto è un corto, basta un obiettivo e Chaplin non resiste e recita: eccolo davanti a un trofeo di pesca con aria finto-sbruffona alla Hemingway.
Ancora delusioni, l’insuccesso di Tempi moderni, e Syd che in sette pagine gli spiega dove ha sbagliato, spietato come solo un fratello può essere. Poi i progetti mai realizzati, ambientati sulla Luna o nell’Impero romano, ecco il copione fantaapocalittico che gli scrive James Agee, giornalista e amico, su uno Charlot unico superstite in una New York post-nucleare, che peccato non sia mai stato girato; o la curiosità di Jean Renoir per Freak, storia di una donna alata che non volerà mai sullo schermo. E fra le settecento foto private, ecco quella splendida che gli scattò Candice Bergen in una camera d’albergo di New York, nel 1972, gran rentrée per il suo secondo Oscar: ma Chaplin ora è un anziano stanco, sprofonda in un divano guardando un televisore che trasmette Il circo. E qui ancora un foglio dattiloscritto, un abbozzo inedito di autobiografia, forse una poesia. Un verso a caso: «Quando Mamma mi parlava di Gesù, volevo morire per andare a conoscerlo».