Riccardo Staglianò, Il Venerdì 28/6/2013, 28 giugno 2013
TED, LO SHOW DELL’INTELLIGENZA TRA DAVOS E CLUB MED
EDIMBURGO. I neuroni si possono aggiustare. Le crisi finanziarie prevedere. Il settore pubblico può rivelarsi più innovativo del privato. E anche lo stress, se saputo portare, è il sale che insaporisce la vita e non il veleno che l’intossica. Sul cancello che conduce al TED, a metà strada tra il World Economic Forum e il Club Med della nuova classe dirigente mondiale, dovrebbero scolpire una parafrasi proustiana: lasciate i problemi facili agli uomini senza immaginazione. Tutti dicono che è impossibile? Pensate ancora, pensate meglio. Think again è il titolo dell’edizione di quest’anno e il sottotesto di tutte le altre. Nihil difficile volenti. Qui Prometeo sarebbe considerato un dilettante. Tra gli organizzatori gira una battuta su certe gesta leggendarie raccontate dai conferenzieri: «Ok, e così hai perso una gamba scalando l’Everest? È capitato a tutti». Li guardo, li ascolto, ammiro le loro presentazioni pirotecniche. Pare che a quelli seduti intorno a me la sospensione dell’incredulità riesca meglio. «Amazing!», meraviglioso, è il commento più frequente. Dicono che nell’edizione americana oltre metà delle lezioni finisca con un’ovazione in piedi. Qui solo un po’ meno. «Idee che vale la pena condividere», recita lo slogan dell’evento. Storie esemplari. Biografie che ispirano. E se fa difetto la sostanza si rimedia con la forma. Perché tutto si può dire meno che chi sale sul palco non sappia spiegare benissimo. Che siano intuizioni geniali o buonsenso tirato a lucido, discorsi che cambiano il mondo o più semplicemente la carriera del relatore, l’esecuzione è impeccabile. Cristallina. Emozionante. Al limite fin troppo perfetta per il bene stesso dello show.
Breve riassunto a uso dei distratti. TED sta per Technology Entertainment Design. Erano le materie originarie di queste quattro giornate di mini conferenze da massimo 18 minuti l’una. L’idea nasce in California nell’84 dall’impresario Richard Saul Wurman. Allora il biglietto costava 475 dollari e potevi ascoltare dal cyberguru Nicholas Negroponte al padre dei frattali Benoit Mandelbrot. Nel 2000 rileva tutto l’editore inglese Chris Anderson. Che gli imprime un abbrivio più globale. La svolta arriva nel 2006 quando decidono di mettere online l’archivio delle conferenze. Un miliardo e mezzo di visualizzazioni dopo, ovvero 15 anni di biglietti del cinema venduti in Italia, al TED californiano se n’è aggiunto uno Global (quest’anno a Edimburgo), rispettivamente con un biglietto da 7500 e 6000 dollari. Nel 2009 il marchio germina un franchising planetario di eventi organizzati indipendenti (conflitto di interessi: chi scrive ne ha curato due edizioni), quei TedX che passano da 300 a 6000 in quattro anni. E arriviamo all’interrogativo di oggi: cosa spinge persone piuttosto sveglie a spendere una decina di migliaia di dollari, considerato viaggio e albergo, per assistere a discorsi che potrebbero guardarsi comodamente e gratis da casa propria solo pochi mesi dopo?
È il mistero che ci ha portati qui. E non è stato facile. Se sei giornalista, i posti sono limitatissimi. E anche il pubblico pagante sarebbe assai più numeroso dei mille ammessi, dopo aver riempito un impegnativo formulario con curriculum e motivazioni. In questa spietata selezione c’è già un indizio. Se club dev’essere, quelli sopra e sotto il palco devono assomigliarsi il più possibile. Perché a pranzo e cena si sta insieme, si parla, si scambiano opinioni e biglietti da visita. Cummenda no, startupper sì. Ma anche l’ex premier greco George Papandreou che vorrebbe l’elezione diretta del presidente europeo. O un pezzo grosso del Dipartimeno di stato passato che vuole aggiornare la definizione di femminismo. Un mix sapiente di informalità e istituzioni opera dello svizzero Bruno Giussani, ex giornalista molto cosmopolita. Chiedo a lui qual è il segreto: «Oltre ai talk, probabilmente la ragione principale per partecipare a TED o TED Global è legata all’esperienza, alla comunità, alla conversazione che si sviluppa fra partecipanti e conferenzieri». Un sondaggio informale tra il pubblico restituisce alcune spiegazioni: «Una droga che espande la mente» (pediatra); «Una bella vacanza per il cervello anziché per il corpo» (broker d’investimenti); «Dedico un decimo dei miei soldi alla formazione. E quest’anno ho già fatto un seminario ad Harvard» (banchiere); «In passato qui ho chiacchierato con Jeff Bezos di Amazon e Cameron Diaz» (imprenditore informatico). È, recuperando un vecchio spot, un posto che piace alla gente che piace. Osserva una giovane prof italiana che insegna a Londra: «Se non sbaglio l’abbonamento al circolo Aniene costa 20 mila euro all’anno, e qui si mangia anche meglio». Per non dire che invece del generone che si lamenta del traffico verso il mare di Sabaudia puoi incontrare Andreas Raptopoulos che ha inventato droni low cost per trasportare medicinali salvavita in tutta l’Africa. Alla fine, come mi spiega bene un manager, è un po’ come la palestra, «gli esercizi puoi farli anche da solo a casa, ma serve troppa disciplina. Se sai di aver pagato ti impegni».
La pattuglia dei transfughi da Davos si fa più nutrita di anno in anno. In confronto al ritrovo alpino questa costa come una vacanza in tenda. «Ormai è più influente» giura il dirigente svizzero di un mastodontico gruppo finanziario, che in qualità di donatore paga biglietto doppio, «ti ispira di più intellettualmente». Pensate a un Gerovital cerebrale, a una scarica lunga 96 ore di dopamina che attiva il circuito della nostalgia, riconnettendo il sé attuale (ricco, risolto, a volte annoiato) con il sé di una volta (sconosciuto, felice e affamatissimo d’ogni novità). Ce n’è di che pagare, «e alla fine è come se mi costasse 2500 dollari, il resto lo detraggo dalle tasse» confessa un’architetta svedese che vive in California. Giussani, il curatore europeo, rimarca la distanza: «Davos si occupa di potere, noi di creatività e innovazione. Loro sono prescrittivi, hanno una visione del futuro e ti dicono come arrivarci. Noi collaborativi, e il futuro è l’oggetto di un brainstorming aperto, collettivo e continuo». Che interpella tanto gli ospiti sulla scena quanto quelli che con loro interloquiscono tra un salmone affumicato e un cous cous.
Il catalogo dei parlanti 2013 è ricchissimo. La saudita che ha sfidato l’Arabia sul divieto di guidare l’auto. La psicologa che insegna a diffidare dei falsi ricordi. La tedesca che vuole riformare le agenzie di rating. L’indiana che alla malaria oppone una rivoluzione culturale. Lo svizzero che fa camminare i topi con la colonna spinale rotta. Tutti prossimamente su ted.com. Da cronista è quasi più interessante raccontare la platea. Che scatta in piedi acclamante quando un venture capitalist di Shanghai le dà del pirla, argomentando acrobaticamente sulla manifesta superiorità del capitalismo cinese. O quando l’autrice di un libro che denuncia la diseguaglianza economica davanti a un pubblico non esattamente indigente, avverte che la tecnologia, santa patrona dell’evento, distruggerà tanti posti di lavoro. O ancora se lo scrittore Pico Iyer implora i presenti – in tweet perenne dagli smartphone – di disconnettersi per la loro salute mentale. La comunità del TED, stomaco di struzzo, digerisce ogni contraddizione.
Basta cucinarle seguendo la ricetta appropriata. Quella che il mensile Wired ha di recente quantificato in 1 per cento di grafica suggestiva, 5 di barzelletta iniziale, 23 di fallimento personale, 49 di tesi controintuitiva e via elencando. Un’omologazione che alla fine si avverte. Alle prove generali Anderson e Giussani consigliano modifiche sui punti che funzionano meno. Una cura parossistica che fornisce un prodotto industrialmente alto e uniforme. Forse troppo. Con professori che assomigliano a consumati cabarettisti. Sin quando, inevitabilmente, la realtà irrompe e manda tutto all’aria. Come succede alla psicologa americana nemica delle diete che a un certo punto va in tilt e non si ricorda più niente. Una cattedratica navigata affondata dall’ansia da prestazione. Come, il giorno dopo, succede a un’esperta giornalista («l’incubo di ogni speaker», ha mugugnato). Comprensibile. Perché se lo speech va davvero bene può farti entrare nella classifica delle superstar più cliccate del TED.
Errori umani però apprezzabili come ventate d’aria fresca. Soprattutto in confronto a testimonianze come quella del ragazzo nordcoreano che, dopo la morte per denutrizione del padre, la scomparsa della madre e la fuga della sorella, ripercorre com’è riuscito rocambolescamente ad arrivare negli Stati uniti, essere adottato da una famiglia amorevole e a diventare il primo della classe. Tutti sull’attenti, cronista compreso. Trionfo. Non pago, in una metamorfosi stile Maria De Filippi, il presentatore lo invita a rivolgere un appello ai familiari scomparsi. Rotto dall’emozione e per di più in inglese, lingua per loro incomprensibile. Ecco, in quel momento lì, molti potenziali amazing sono stati abortiti. È come se la tela si fosse squarciata e si vedesse la brutta impalcatura del castello dello spettacolo. Come se, d’improvviso, della trinità eponima la E di entertainment fosse cresciuta in maniera abnorme. È una lettura di certo minoritaria, che il pubblico fieramente entusiasta non condividerà. Eppure ho preso appunti quando il relatore ambientalista scandiva: «Un’oncia di speranza fa più di tonnellate di disperazione». Devo tornarci per metabolizzare questa lezione. Oppure guardarmi tante repliche online, fino a quando lo spirito del TED, se non salvifico senz’altro energizzante, non si impadronirà totalmente di me.