Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  giugno 28 Venerdì calendario

IL MISTERO DI SPATUZZA

PALERMO. L’11 giugno scorso, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia a Roma, è successo un fatto importante nella storia della lotta alla mafia; e nello stesso tempo piuttosto sgradevole per chi ha a cuore verità e trasparenza: ovvero noi (quasi) tutti. Purtroppo, però, sull’avvenimento è subito sceso un mantello di silenzio. Argomento, le stragi di mafia di ventuno anni fa. Processo Borsellino, detto quater, perché i primi tre erano solo riusciti nella formidabile impresa di depistare la verità e condannare all’ergastolo sette innocenti. Dopoché, nel 2009, il famoso pentito Spatuzza si accusò della strage e fece crollare tutto il castello di carte; i sette innocenti (ridotti a povera cosa) sono stati liberati ed è cominciato il quater. L’11 giugno la corte di Caltanissetta si è trasferita a Roma per ascoltare il famoso pentito. Quel giorno, nella routine delle videoconferenze e dei paraventi, è però successo un "incidente".

L’avvocato Flavio Sinatra, difensore degli imputati Salvino Madonia e Vittorio Tutino, sta controinterrogando il teste Spatuzza. Gli domanda se avesse già detto in passato a qualcuno, quello che lo rese famoso nel 2008. Spatuzza nega. L’avvocato gli domanda se avesse parlato della strage di via D’Amelio con altri magistrati e il pentito si innervosisce. "Non ricordo". Ed ecco il colpo di scena: si materializza un verbale di interrogatorio di Gaspare Spatuzza reso nel 1998 nientemeno che all’allora capo della Procura nazionale antimafia
Pier Luigi Vigna (morto nel 2012) e al suo vice, Piero Grasso, l’attuale presidente del Senato. Contenuto? Beh, diciamo: esplosivo. Sconcerto in aula. Da dove salta fuori il verbale? Nientemeno che dal fascicolo del pubblico ministero, dove risulta protocollato nel 2009, ma nessuno, prima dell’avvocato Sinatra, si era mai accorto della sua esistenza. L’avvocato Sinatra chiede che il verbale sia messo agli atti; la parte civile della famiglia Borsellino si associa; lo stesso fa quella del Comune di Palermo.

La Procura invece si oppone perché il verbale non porta la firma del pentito, e quindi è un documento senza valore giudiziario. La Corte le dà ragione e non lo ammette. Che peccato, vero? Piccolo briefing su Gaspare Spatuzza. È un killer di Cosa Nostra al servizio dei fratelli Graviano del quartiere Brancaccio di Palermo, fedele ai suoi padrini come lo era il terribile Luca Brasi a don Vito Corleone. Ha ammazzato padre Puglisi, ha rapito il piccolo Di Matteo, ha sciolto nell’acido decine di cadaveri. Arrestato il 2 luglio del 1997 a Palermo (una soffiata la mattina, un’operazione militare della Squadra Mobile a mezzogiorno, ovvero una giornata inconsueta per uno Spatuzza che a Palermo la faceva da padrone, e che invece si vede addirittura sparare addosso dai poliziotti), viene messo al 41 bis da cui ricompare, folgorato dalla Fede e immerso nella Grazia del Signore, undici anni dopo. Ci dicono che è pentito, studia le vite dei Santi, ha capito i suoi misfatti, chiede perdono, vuole espiare.

Si è detto anche che il suo pentimento sia il vero miracolo di don Puglisi, recentemente nominato Beato. Spatuzza la sa ma- le- detta-mente lunga sulle stragi del 1992-1993, perché c’è la sua mano sia a Palermo, che a Milano, che a Roma. In particolare, spiega ai giudici di Caltanissetta che quel ragazzo che hanno accusato per la strage di via D’Amelio, Vincenzo Scarantino (uno psicolabile) che ha convinto schiere di magistrati addirittura in nove processi, non c’entra assolutamente nulla. Poi Spatuzza racconta che i Graviano hanno messo le bombe per fare un piacere a Berlusconi, ma - mannaggia! - non ha le prove (il governo Berlusconi, in attesa della deposizione di Spatuzza, pare appeso a un filo). Tutto ciò si svolge tra il 2008 e il 2010.

Alla luce di quel dimenticato documento, oggi si scopre che la storia di Spatuzza non è andata proprio cos". E che, addirittura nel 1998, la Procura Nazionale Antimafia sapeva tutto quello che, con grande stupore, noi cittadini abbiamo appreso dieci anni dopo. Il terribile Gaspare Spatuzza, infatti, cominciò a parlare appena messo in galera. Colloqui riservati, promesse e una vera e propria trattativa con la Dna di Pierluigi Vigna. Il 26 giugno 1998, nel carcere de L’Aquila dove Spatuzza è stato trasferito su sua richiesta, Vigna e Grasso parlano con lui di possibili arresti domiciliari, del trattamento della sua famiglia e dei tempi della sua collaborazione. Ma intanto lo sondano per sapere quanto è disposto a dire. E Spatuzza ne dice di tutti i colori. Dettagli sull’attentato a Costanzo (il presentatore e Maria De Filippi devono la vita al fatto che i due mafiosi incaricati si azzuffarono su chi dovesse azionare il telecomando), su Firenze (l’obiettivo venne scelto consultando la rivista Leonardo, in pole position c’era anche Ponte Vecchio), su Milano (sbagliarono a posteggiare la macchina e cos" arrivarono i Vigili del fuoco).

Non solo: Spatuzza rivelò già allora il progetto di un’ecatombe di carabinieri allo stadio Olimpico, rivelò che l’esplosivo per Capaci non veniva dalla ex Jugoslavia, ma da residuati bellici raccolti in mare da pescatori ( "ce n’è da far esplodere tutta l’Italia"), rivendicò un attentato alla caserma dei carabinieri a Gravina di Catania (che nessuno aveva attribuito a Cosa Nostra) e altri attentati in Calabria, raccontò invece che altri gruppi, a lui sconosciuti, fecero un attentato contro una "sede americana" a Roma, e che depositarono una bomba su un treno a Genova. Parlò, soprattutto, della strategia politica dietro le bombe: i Graviano avevano agito per un patto stipulato con Dell’Utri e per suo tramite con Berlusconi. Ma poi i due fratelli vennero arrestati, a Milano dove erano andati per colloqui (gennaio 1994, i giorni della "discesa in campo"), e dopo il loro arresto "il contatto si chiude", la gestione passa in mano al cognato di Riina, Bagarella.

Deve essere stato un colloquio indimenticabile per i due magistrati. Non avevano davanti il solito pentito di mezza tacca, ma un super killer con le mani ancora bagnate di sangue, protagonista della stagione delle stragi, con cui trattare una collaborazione piena sul più grande mistero della storia d’Italia. Certo bisogna verificare, controllare, riscontrare; ma i due magistrati sono colpiti dalla quantità di cose che Spatuzza rivela. Era una storia, la Storia, come nessuno l’aveva mai detta prima. Vigna, Grasso lasciano Spatuzza con l’intesa di rivedersi, gli chiedono anche se può adoperarsi per far collaborare i Graviano stessi, ma Spatuzza si rifiuta di firmare il verbale. é la sua parte nella trattativa. Non sappiamo molto altro, se non che passano quindici anni prima che quegli 82 fogli diventino pubblici, accolti - chissà perché - con ostilità dalle toghe di Caltanissetta.

(È possibile, però, che ne risentiremo parlare, perché potrebbe essere chiamato a testimoniare al Borsellino quater l’ufficiale giudiziario Filippo Spalletta, che trascrisse il nastro del colloquio - importante per le nuances dell’eloquio, ottima base per una futura trasmissione di Michele Santoro - e, naturalmente, il presidente del Senato Piero Grasso). Ma torniamo al secolo scorso. Nel 1998 Spatuzza si dimostra straordinariamente informato sulla strage di via D’Amelio. Lo fa capire senza nemmeno tanti giri di parole a Vigna e Grasso, indicando macchina, officina, targhe, esplosivi utilizzati per imbottire la famosa Fiat 126. Di fronte a queste notizie, Vigna e Grasso devono essere sobbalzati, perché la verità ufficiale era completamente diversa. Infatti, per merito del più brillante investigatore della polizia, Arnaldo La Barbera (diventato per questo Prefetto), il delitto Borsellino era stato risolto a tempi di record. Tre ragazzi del misero quartiere della Guadagna a Palermo avevano organizzato il tutto. Uno di loro, Vincenzo Scarantino, sotto l’apparenza dello scemo di borgata era in realtà un "uomo d’onore coperto", cui i boss Salvatore Riina e Pietro Aglieri avevano affidato l’esecuzione del piano.

Ma ora Vigna e Grasso avevano davanti il possibile vero autore che tranquillamente di Scarantino diceva, secondo la trascrizione: "Lui è a Pianosa perché ha ammazzato un cristiano che doveva ammazzare e ci ficiru diri chiddu ca nu avia a diri. Toto La Barbera". E subito dopo definiva lui e gli altri due, "una cordata di pentiti". Come biglietto da visita, niente male. Gaspare Spatuzza la sapeva veramente lunga. Ma chi era Toto La Barbera? Il super investigatore, morto nel 2001, si chiamava Arnaldo. Tra i suoi sottoposti c’era un certo Salvatore La Barbera che oggi dirige il compartimento della Polizia Postale della Lombardia. Spatuzza si riferiva a lui? Non sappiamo. Voi adesso vorreste sapere che uso fece la Dna di Vigna e Grasso di questa informazione. La comunicarono a Caltanissetta, dove c’era l’inchiesta? Informarono i colleghi nisseni che esisteva una "versione Spatuzza" del delitto? Venne chiamato a rapporto il prefetto La Barbera?

Non si sa. Però si sa che pochi mesi dopo quel colloquio, Scarantino si presentò in aula a Como e denunciò di essere stato torturato a Pianosa ("da 110 chili sono sceso a 60"), e di non sapere proprio nulla della strage. Ma i magistrati di Caltanissetta spiegarono che Scarantino ritrattava perché Cosa Nostra lo minacciava e che proprio quella ritrattazione era la prova della sua veridicità; quindi, visto che aveva accusato magistrati e poliziotti, gli appiopparono per direttissima sei anni per calunnia. L’ostinazione dei magistrati di Caltanissetta nell’avallare una pista falsa è una delle cose che in questa vicenda continuano a colpire. Fin dal suo arresto, nessuno credeva che l’attentato potesse essere stato fatto da una nullità come Scarantino. Non ci credevano i pm di Palermo, non ci credevano i giornalisti. Nel 1994, sia Ilda Boccassini che Roberto Sajeva, due magistrati che seguivano il caso, scrissero a chiare lettere che i verbali di Scarantino erano stati ottenuti illegalmente. I grandi boss pentiti, da Cangemi a Brusca, misero in guardia i magistrati, come dei padri di famiglia: "Fate attenzione, è una trappola". Ora, come abbiamo visto, addirittura la DNA sapeva.

Perché dunque si ostinarono, contro ogni logica? Perché ancora adesso sembrano avere perso la memoria di quanto successe? Che strana storia, in cui un mafioso ha parlato dieci anni prima del suo pentimento ufficiale e i magistrati invece sembrano legati, a vent’anni di distanza, a qualcosa che assomiglia all’omertà. Che strana storia, quella in cui il più valente sbirro italiano favorisce gli autori della strage costruendo una falsa pista che regge ben quindici anni e impedisce che si indaghi sui reali autori del delitto. Perché? Solo per fare carriera? Problemi per uno studente di Giurisprudenza: un magistrato che avalla il falso in un delitto di mafia, può essere accusato di favoreggiamento alla mafia?

Un magistrato che viene a conoscenza di una verità su un delitto di mafia, commette un reato se non la comunica a chi di dovere? Come i lettori sanno, di quello che successe in quei terribili anni 1992-1993, le poche verità raggiunte sono state sostituite da una nessuna verità, sostituita da sospetti e accuse reciproche, con processi in corso tanto teatrali quanto macchinosi e destinati al nulla, se non agli scoppiettii dei media e a qualche ricatto politico. Carabinieri, ministri, giudici, servizi segreti, uomini politici sono accusati della "trattativa", una parola dietro cui ormai si immagazzina praticamente tutto. E se anche questo falso pentito (Scarantino) e questo antico confidente (Spatuzza) fossero parte di una trattativa? E se anche chi oggi indaga ne fosse stato più o meno consapevole tassello? Tra poco saranno ventuno anni dalla uccisione di Paolo Borsellino. Nessuno sa dire chi l’ha ucciso; chi ha ordinato di ucciderlo; perché è stato ucciso. Ma è spaventoso quanto faccia ancora paura la verità sulla sua morte.