Paolo Di Stefano, Sette 28/6/2013, 28 giugno 2013
L’ENIGMATICA VITA DI ITALO SVEVO E DEL SUO
DOPPIO –
Non c’è niente di più fascinoso di una vita insignificante, si potrebbe dire dopo aver letto la biografia che Maurizio Serra ha dedicato a Italo Svevo (Italo Svevo, ou l’Antivie). Come si possa conciliare una vita con un’antivita è il mistero che percorre le pagine del volume pubblicato in Francia dall’editore Grasset. Su questo equilibrio precario viene costruito un racconto affabile e insieme puntualmente documentato sullo scrittore triestino che si definì «l’ultimo prodotto della fermentazione di un secolo». Quella di Ettore Schmitz (che come si sa è il vero nome di Svevo), impiegato di banca incaricato di scrivere la corrispondenza in francese e in inglese e poi dirigente nell’azienda di vernici dei suoceri, è una vita che non ha niente di notevole, nessun evento sconvolgente, nessuna trama avventurosa, simile in questo alle biografie di altri geni della letteratura, a cominciare da Franz Kafka (il suo «fratello separato praghese») e Fernando Pessoa. Ciò che Svevo condivide con gli altri protagonisti raccontati da Serra, diplomatico e ambasciatore dell’Italia all’Unesco, nelle precedenti biografie (Drieu la Rochelle, Aragon, Malraux, Marinetti, Malaparte) non è il grigiore della vita ma la loro condizione di “irregolari”, mai pacificati con l’ambiente culturale che li circonda, difficilmente adattabili. Il paradosso sveviano è nella “a” privativa che potrebbe precedere ogni sua attitudine esistenziale e che contrasta con l’investimento furioso che mise nella letteratura, cioè in quell’antivita che gli permette di vivere. Estraneo alla politica, contrario alla guerra, sospettoso rispetto alla religione, diffidente persino verso la psicoanalisi, di cui si rivelerà uno degli interpreti pionieristici. Un solo vizio: le sigarette. Il triestino Claudio Magris sottolinea (Magris e Predrag Matvejevic sono intervistati da Serra in appendice al libro) i numerosi malintesi, gli errori, i fallimenti, i disinganni che costellano l’esistenza di uno scrittore che «ha scrutato a fondo l’ambiguità e il vuoto della vita», consapevole che le cose non hanno un ordine ma continuano a vivere come se l’avessero.
Ettore contro Italo. È nella tensione tra vita borghese, di benessere mercantile e antivita dell’artista che si innesta la difficile convivenza tra Ettore e Italo, tra l’uomo e lo scrittore. Serra fa di questa difficile relazione l’asse portante della sua narrazione: «Svevo», dice, «è il doppio, conculcato e rimosso dalla vita di Schmitz, che alla fine si vendica». Già la tripartizione del primo capitolo dà un’idea degli sviluppi di questo difficile equilibrio che si risolve in una ribellione e in una rivalsa: Ettore prima di Italo (1861-1898), Ettore con Italo (1887-1892), Ettore contro Italo (1892-1898). Non ci sarebbero né Ettore né Italo se non ci fosse Trieste, la città ricca, cosmopolita, multietnica e multireligiosa in cui si mescolano cattolici, protestanti, greci-ortodossi, ebrei, musulmani, liberi pensatori, massoni; capitale delle grandi banche e delle assicurazioni su cui Serra esibisce tutte le sue conoscenze di storico della società e della cultura. La città, divisa fra tradizionalisti e innovatori, in cui James Joyce visse varie fasi del suo esilio dal 1905. Fu la fortuna di Svevo. Il quale nacque austriaco ed ebreo e morì italiano e agnostico (dopo essersi convertito al cattolicesimo). In questo crogiolo, di cui Serra restituisce un affresco storico vivo, pieno di personaggi e di relazioni, Ettore assorbe il bilinguismo italiano-tedesco, mentre Italo lo rifiuterà, accogliendo e anzi enfatizzando lo spirito patriottico del padre, «buonissimo italiano»: «Svevo poteva scrivere bene in tedesco; preferì scrivere male in italiano. Fu l’ultimo omaggio al fascino assimilatore della “vecchia” cultura italiana. È la storia dell’amore – prima della “redenzione” di Trieste – per l’Italia», sentenziò il concittadino Umberto Saba.
Serra ricostruisce il fitto microcosmo familiare (sei figli) di villa Veneziani e la formazione (in Baviera) del giovane Ettore e dei suoi fratelli. Il lavoro quotidiano in ufficio, le collaborazioni ai giornali locali, le serate mondane con la passione per la musica e per il teatro: una vita «dolce e mediocre», ferita dalla morte precoce del caro fratello Elio, è quella del trentenne Ettore. Gli amici ne descriveranno «gli occhi neri, prominenti, leggermente strabici», l’intelligenza «calma e realmente fuori dal comune», la voce rauca ma sonora, l’abitudine infantile
di scoppiare in chiassose risate, la strana conformazione della testa, il metro e 68 di statura (la stessa di Mussolini), la riservatezza, la capacità di parlare e soprattutto di ascoltare.
Nell’86, dopo varie prove narrative, cominciò a scrivere il suo primo romanzo, Una vita, un laboratorio infinito che si chiuderà sei anni dopo, quando muore il padre (afflitto dai rovesci economici), con il rifiuto dell’editore Treves e che pubblicherà a proprie spese con pseudonimo.
Marito (della cugina Livia Veneziani) e padre (di Letizia) irreprensibile, nevrotico quanto bastava a fargli ingaggiare ben presto una dura battaglia contro la vecchiaia, si sa che lo scrittore non avrà, se non in extremis, le soddisfazioni che si sarebbe aspettato (e avrebbe meritato). A proposito dell’opera di Svevo, che Serra discute sciogliendo nel racconto la riflessione e le considerazioni critiche, viene messa in campo una messe vertiginosa di conoscenze e di riferimenti: «Zeno appartiene alla grande famiglia degli squilibrati (la parola in francese è “désaxés”, cioè letteralmente “fuori asse”, ndr) dell’inizio del secolo, quella di Josef K., di Törless e di Christian Buddenbrook». Un romanzo europeo. Ma sarà la Francia a spalancare a Svevo le porte della fortuna letteraria, attraverso Joyce, il quale, leggendo una copia della Coscienza, avverte gli amici transalpini Valéry Larbaud e Crémieux. Su quell’onda, si sveglia anche l’Italia (dove Montale aveva espresso la sua pubblica stima, aprendo il “caso Svevo”). Morirà nel modo più stupido, per le conseguenze di un incidente stradale al ritorno da una vacanza a Bormio.
Serra, nel turbinio delle citazioni a distanza, sigilla il piacere sottile dell’estrema rivalsa di Schmitz-Svevo rispetto alla sua stessa vita, oltre che nei confronti di un mondo culturale a lungo recalcitrante davanti alla sua grandezza, con un’epigrafe del grande scrittore polacco Witold Gombrowicz: «Il mio successo è arrivato troppo tardi… di una decina o di una ventina d’anni… Non posso assaporare né la mia ascensione né il vostro fallimento. Come perdonarvi?».
Intanto, anche l’editoria italiana si interroga sui misteri biografici di Svevo. Più tradizionale nella scansione, nel tessuto compositivo e nell’approccio storico-critico è la monografia dedicata da Gino Tellini allo scrittore triestino (Salerno editrice). Introducendo il volume, Tellini, che è storico della letteratura ottocentesca, ricorda l’incontro casuale tra Schmitz e Montale, nei pressi della Scala a Milano, in un mattino primaverile del 1916. Seduti a un caffè, non parlarono di letteratura. Svevo rammentò di aver avuto a che fare, per motivi di lavoro, con un importatore di resine e acquaragia che si chiamava Montale e domandò al poeta se fosse per caso suo parente. Si trattava di Domenico Montale, padre di Eugenio. «E da allora», avrebbe scritto anni dopo il poeta ligure, «un sentore di trementina restò nei nostri rapporti, che non riuscii mai a portare a lungo sul piano della letteratura». Svevo non era un letterato di professione: «Per lui», osserva Tellini, «la realtà della vita, la serietà della vita concreta, vengono prima della letteratura, la quale illumina l’esperienza, l’analizza, l’alleggerisce, ne misura coscienza e consapevolezza, ma non ne prende il posto, non la sostituisce». Si ritorna all’enigma dell’intreccio tra vita e antivita.