Pio D’emilia, L’Espresso 28/6/2013, 28 giugno 2013
NON DUBITATE DELLA ABENOMICS
[Colloquio Con Jeffrey Sachs] –
Espansione monetaria, flessibilità fiscale, riforme strutturali. Sono le "tre frecce" scoccate dall’arco del premier Shinzo Abe per rivitalizzare l’economia giapponese che finalmente sembra essere uscita da vent’anni di stagnazione/deflazione e che sembra tornata a fare da motore alla ripresa mondiale. La Banca centrale (Bank of Japan) stampa yen per comprare titoli di Stato e finanziare il debito pubblico a tassi d’interesse bassi. Il governo rinvia il problema del contenimento dell’elevato debito pubblico e torna a spendere. Infine con le riforme strutturali si ridà la carica a un’economia da tempo piatta.
Degli effetti dell’Abenomics ha parlato a Tokyo, in incontri riservati, anche Jeffrey Sachs, uno dei più autorevoli economisti del mondo. Oltre a dirigere l’Earth Institute presso la Columbia University, è consulente economico del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon e ha un seguitissimo blog. "L’Espresso" lo ha intervistato per chiedergli se i recenti cali dell’indice di Borsa e le perplessità manifestate in ambienti politici e accademici possono pregiusicare l’efficacia della svolta attuata da Abe e dal suo governo.
Professore, il "miracolo" è già finito?
«Se c’è un settore in cui i miracoli non sono mai esistiti è proprio l’economia. I mercati sono per definizione e tradizione entità laiche, che spesso anticipano, talvolta anche troppo, gli effetti auspicati o temuti delle scelte. La Borsa di Tokyo negli ultimi 16 mesi ha guadagnato oltre il 70 per cento puntando sull’Abenomics, è assolutamente normale che denunci delle scosse di assestamento».
Quindi lei è e resta ottimista. L’Abenomics funziona.
«L’Abenomics non è un analgesico, un farmaco instantaneo. È piuttosto una terapia di medio se non lungo termine, che dovrebbe riuscire a curare un paziente malato da tempo. Le prime due frecce hanno colpito il bersaglio e stanno già dando i loro frutti: il Giappone è uscito dall’assurdo isolamento in cui si era cacciato dal 2008 e ha deciso di tornare a "giocare" con tutti gli altri. Finalmente si rivedono in giro anche gli yen, non solo dollari ed euro. Del resto l’espansione monetaria è una ricetta già adottata dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e più di recente dall’Europa. Gli effetti si vedono già: lo yen è sceso, i prodotti giapponesi sono tornati competitivi, la bilancia commerciale, che negli ultimi anni era piombata in negativo, presto tornerà in attivo. Insomma, il Giappone è tornato, bentornato tra noi».
Però i consumi non aumentano, e nemmeno i salari. Ci sono più yen in giro, ma non è detto che vadano nelle tasche dei giapponesi, e nemmeno che restino in Giappone. Ci sono titoli molto più redditizi che non quelli di uno Stato che denuncia il debito pubblico più alto del mondo industrialiazzato (il 240 per cento del Pil, il doppio dell’Italia) e che secondo molti suoi colleghi rappresenta una bomba a orologeria. Aberisk, lo chiamano, altro che Abenomics.
«Bisogna avere pazienza, aspettare che la seconda, ma soprattutto la terza freccia, producano i loro effetti. E, ripeto, non aspettarsi miracoli. La verità è che i paesi ricchi o non crescono o crescono molto lentamente, a differenza di quelli più poveri o emergenti. Dobbiamo scordarci crescite a due cifre, io mi accontenterei di quanto promesso da Abe: tra l’1 e il 2 per cento l’anno, in termini reali. E almeno per dieci anni».
Non le sembra una strategia ormai superata? Stati Uniti ed Europa ormai sono saturi. E poi lo yen debole se da un lato aiuta le esportazioni, dall’altro fa aumentare la bolletta delle materie prime, che il Giappone, soprattutto dopo la rinuncia forzata al nucleare, importa quasi totalmente
«E infatti il Giappone deve guardare altrove. Ai mercati asiatici, ovviamente, a una sempre più intensa e complementare integrazione con la Cina, ma anche al Sudamerica e soprattutto all’Africa. Il governo Abe questo l’ha capito: ha appena lanciato una grande campagna di aiuti per lo sviluppo e di investimenti privati in Africa. Ameno 35 miliardi di dollari che si moltiplicheranno grazie alle commesse che le aziende giapponesi, con il loro prezioso know-how e il supporto del governo, riusciranno ad assicurarsi. Avrete modo di rendervene conto: non vedremo solo più yen in giro, ma anche giapponesi. Non in Europa o negli Usa e nemmeno in Asia, dove in molti paesi non sono ancora visti di buon occhio, ma in Africa e in America latina. Sarà una svolta storica».
E cosa ne pensa del nucleare? Del fatto che un paese che ha vissuto una tragedia come quella di Fukushima sia ancora indeciso sul futuro e intanto esporta centrali in giro per il mondo? L’ultima in Turchia.
«Penso che l’energia nucleare sia ancora utile e necessaria. La vera emergenza, la priorità assoluta è quella di diminuire le emissioni di CO2: sono 3 milioni di anni che bruciamo tutto quello che possiamo bruciare. Ora dobbiamo fermarci. E siccome con le rinnovabili ancora non siamo in grado di rispondere alla sempre crescente domanda di energia, il nucleare serve ancora. Ma questo non significa che dobbiamo costruire le centrali sopra le faglie più ballerine del mondo. E comunque i grandi paesi industrializzati non hanno ancora le idee chiare sul futuro energetico. Io so solo una cosa: che ridurre la dipendenza dagli idrocarburi non solo aiuterebbe l’ambiente, ma ripulirebbe anche la società e la politica. Le multinazionali del petrolio sono state le maggior responsabili della corruzione in giro per il mondo».
La "terza freccia", quella più importante, non sembra aver aver colpito il bersaglio. Anzi. I giapponesi ricordano di aver sentito già parlare, all’inizio del secolo, di "riforme strutturali", da Junichiro Koizumi, uno dei premier più longevi del dopoguerra. Anche lui prometteva di "aprire" il Giappone, liberalizzare il mercato, abolire ogni discriminazione contro le donne, ridurre la dipendenza dal nucleare. Alla fine è riuscito solo a privatizzare le poste, e neanche completamente. Quanto alle pari opportunità, il Giappone è ancora al 101º posto su 135, dietro a paesi come l’Azerbaijan, l’Indonesia e la Cina. Delle 225 società che compongono l’indice Nikkei della Borsa, non ce n’è una guidata da una donna. Se non c’è riuscito Koizumi, molto più abile e popolare, perché mai dovrebbe riuscirci Abe?
«Perché sono le stesse forze che hanno a suo tempo ostacolato Koizumi che oggi sono convinte della necessità di cam
biare. Prendiamo le donne: il loro recupero sul mercato del lavoro porterebbe a un incremento del 15 per cento del Pil. È una necessità ormai, non un’opzione. È come se questo Paese avesse corso finora una maratona su una gamba sola. È ora di utilizzarle tutte e due».
Peccato che tutti questi bei discorsi siano stati fatti in una sala chiusa alla stampa e dove le donne non erano certo molte: abbiamo dato una sbirciata dentro. Ne abbiamo viste solo un paio. La parità di genere non dovrebbe essere imposta per esigenze fiscali, ma come regola sociale e forse non basta la distribuzione dei "manuali per la donna", stampati a milioni, dove si raccomanda loro di sposarsi "per tempo" e far subito dei figli, se prima non si creano le strutture per accudirli.
«Di questo l’attuale governo è convinto, mi creda. È una delle priorità assolute. Le donne devono essere coinvolte direttamente nella ripresa economica di questo grande Paese. Le donne manager e dirigenti sono ancora poche, ma quelle che hanno già raggiunto posizioni di vertice sono bravissime e stanno cambiando la mentalità sin qui dominante».
Professore, l’Abenomics è in qualche modo esportabile, come strategia complessiva, in Europa?
Il problema non è l’Europa, è l’assenza dell’Europa. Che dal punto di vista monetario ancora non esiste. L’euro è ancora un "work in progress". Ma la responsabilità della crisi è tutta delle banche e delle banche centrali, che non hanno saputo o voluto intervenire subito. Ora la situazione è davvero pesante. La stretta creditizia ha strangolato l’economia e gli imprenditori sono disperati. Il credito è come l’acqua: se viene a mancare, la terra si secca, e avanza il deserto. Ormai, siamo in piena carestia e il disagio sociale aumenta sempre di più. Bisogna trovare delle risposte. E in fretta. Ogni giorno che passa la situazione diventa più esplosiva.