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 2013  giugno 28 Venerdì calendario

LA PITTURA SECONDO LÉVY

[Colloquio Con Bernard-Henri Levy] –
Si direbbe che il concetto di "ubris", la tracotanza dell’orgoglio umano, gli antichi greci l’abbiano inventato per lui. Che , poi, il pensiero greco e i suoi miti, compreso quello di Prometeo, li ha archiviati tra i ferri vecchi della filosofia in compagnia di buona parte del pensiero occidentale.
A 64 anni, Bernard-Henri Lévy, il capofila dei "nouveaux philosophes", l’ex "enfant terrible" della cultura francese che ha osato mettere in discussione l’Illuminismo, il teorico del pessimismo, il revisionista ex maoista che denuncia stalinismo e gulag, il dandy milionario, il ragazzo che a 28 anni è consigliere di Mitterrand, l’intellettuale attaccato da Aron e Deleuze come filosofo da boudoir ma difeso da Foucault e Barthes, il novello Byron che vola a Bengasi a incontrare i ribelli libici e convince Sarkozy ad attaccare Gheddafi, inventa un nuovo se stesso diventando commissario d’esposizione. Ha concepito e curato una grande mostra intitolata "Les Aventures de la vérité, Peinture et philosophie: un récit"(dal 29 giugno al 6 ottobre), alla Fondazione Maeght di Saint Paul de Vence, il villaggio sopra Nizza reso famoso da Chagall e Miró, da Braque e Bonnard, da Calder e Giacometti che, ospiti del gallerista Aimé Maeght, vissero e lavorarono con decine di altri grandi artisti. "L’Espresso" lo ha intervistato mentre sorseggiava un succo di mela verde nel suo "ufficio" parigino, l’elegante sala da the del Grand Hotel Bristol nel Fauboug Saint Honoré.
Un esordio, questa mostra.
«Sì, è una prima volta.Non ci avrei neanche mai pensato se non avessi avuto l’offerta da parte del direttore della Fondazione Olivier Kaeppelin e di Adrien Maeght».
Verità, dice il titolo: un criterio non estetico.
«Appunto perché penso che sia urgente disgiungere arte ed estetica. L’estetica non è la sola disciplina che si occupa di pittura. La filosofia, l’ontologia, anche».
Perché fa riferimento esplicito alla pittura?
«Perché è alla pittura che mi sento più vicino, e anche nelle performance di certi artisti contemporanei ho la tendenza a vedere una sorta di pittura nascosta, di pittura segreta o invisibile. La pittura la vedo come una specie di arte prima, di "arte princeps"».
In mostra ci sono 150 opere di arte antica, moderna e contemporanea raggruppate in sette "sequenze". Ma cosa lega Bronzino e Warhol, Cranach e Rothko?
«La storia. Questa esposizione è come un film o come un libro le cui opere sarebbero delle sequenze e anche delle configurazioni atemporali. Un film proiettato sui muri della Fondazione Maeght: una storia con una trama , un intrigo, un filo conduttore, dei capovolgimenti, dei colpi di scena. È questo il legame: un legame romanzesco».
Qual è il suo rapporto con l’immagine?
«Un rapporto di passione. Io sono baudelairiano, sa? Baudelaire parlava della sua "primitiva passione per l’immagine". Questa passione fa parte delle ragioni che mi hanno spinto 25 anni fa a dedicargli un libro. E che mi fanno oggi prendere il rischio di questa esposizione».
Ha detto di non voler avere «niente a che vedere con musei immaginari». Una presa di distanza da Malraux e da una sua celeberrima mostra nello stesso luogo. Che cos’è che non va in Malraux?
«Era un critico immenso, un immenso storico dell’arte e un immenso commissario di esposizioni ed è ora di riconoscerlo e di rivalutarlo. Ma il mio procedimento non è uguale al suo, non fosse che per la sistematicità della mia mostra. La mostra di Malraux alla Fondazione Maeght di quarant’anni fa era senza dubbio più poetica. C’era quella deambulazione casuale tra le opere, quel modo di lasciarsi portare da un’opera all’altra...».
Invece lei?
«Per me c’è un filo che passa tra ciascuna delle opere scelte. Meno poeta dunque, ma forse più filosofo».
Si è messo su un terreno insolito, si aspetta attacchi?
«Non mi pongo mai questo genere di problemi, ho fatto quello che dovevo, ho cercato di farlo rendendo giustizia a ciascuno degli artisti in mostra. Difficile, per altro, integrare delle opere a una storia senza strumentalizzarle, far partecipare degli artisti a un’"avventura" che non è del tutto la loro, rispettandoli. Penso, spero di esserci riuscito. È questo che mi importa. La sola critica che mi rattristerebbe sarebbe un artista che dicesse: "Ma che ci faccio qui?"».
Vediamo. Prima sequenza: "Fatalità delle ombre": Platone.
«Sì, perché Platone è l’iconoclasta per eccellenza, nemico delle arti e degli artisti. E perché questa dichiarazione di guerra a pittori, scultori, facitori di immagini ha effetti ancora oggi».
Molti lavori trattano del mito greco di fondazione della pittura: Dibutate, la figlia del vasaio che disegna il profilo dell’amante sul muro intorno alla sua ombra. L’arte al suo inizio era dunque al femminile?
«È quello che ci dicono gli antichi, in effetti. La pittura è figlia dell’amore, ed è inventata da una donna. Amo questa ipotesi, la favola di un’arte inventata da una donna sull’altare dell’amore».
Altra sequenza: "Tecnica di un colpo di Stato". Perché Malaparte?
«È vero, il titolo è una strizzata d’occhio a Malaparte. Ma è solo quello. Il colpo di Stato di cui parlo è teologico. Un putsch di pittori che inventano la favola del velo di Veronica come prova che l’immagine può essere bella e santa».
De Chirico apre un’altra sequenza come omaggio a Nietzsche. L’arte si rivela nell’apollineo o nel dionisiaco?
«Per me non è questa la domanda. E neanche per Nietzsche, d’altronde, perché è sempre i due contemporaneamente. Ciò che mi interessa del pensiero di Nietzsche è il modo in cui libera la pittura dalla tutela della filosofia. È il fatto che rivaluta completamente l’arte e le dà la possibilità di dispiegarsi».
Nella "Tomba della filosofia", troviamo tra gli altri Cosmé Tura, René Magritte, Joseph Kosuth. Un’arte che umilia la filosofia, che umilia Hegel. È possibile umiliare Hegel?
«Sì, è possibile. E anche umiliare Platone. Li si può prendere in parola, cosa che fa Kosuth, si può soprattutto prendere in parola gli hegeliani e Hegel quando dicono che la filosofia deve tacere. C’è tutta una tendenza della pittura che punta a sottostimare la filosofia, a prendersene gioco, a prenderla in parola quando sostiene di dover tacere, a metterla a tacere, a prendere il suo posto».
Dada, Duchamp, Fontana, Sol Lewitt: che cos’è la sequenza "Rivincita di Platone"?
«È la filosofia che riprende il potere, che controlla la mano e il cervello degli artisti, che riduce le loro opere a puro concetto fino a rendere l’esecuzione dell’opera inessenziale. Che considera che un’opera stia nel suo disegno mentale e non nel suo disegno a matita».
Potere, arte e filosofia come dialogano?
«Quale potere?».
La politica, il denaro per esempio.
«Il denaro? Dialoga con l’arte, certo. Si chiama mercato. Bisogna deplorarlo? Non ne sono sicuro. Il mercato non è il modo peggiore di circolare per l’arte. Certo al mercato capita di essere aberrante, a breve termine, ma non necessariamente a lungo termine».
E qual è il suo rapporto col potere politico?
«Di strumentalizzazione. Me ne servo quando difendo una causa che reputo giusta».
In Europa cresce il populismo. Perché secondo lei il sogno dei vari Monnet, Adenauer e Spinelli vira all’incubo?
«Una ragione è che non ci sono più grandi leader europei».
Si considera più vicino a Camus o a Sartre?
«Difficile a dirsi. Ma in fondo, a Sartre».
Chi è stato più importante per lei, Althusser o Lévinas?
«Lévinas».
Il suo maestro Althusser era marxista, che rapporto avevate?
«All’epoca in cui vedevo Althusser ero marxista-leninista. Credo che avesse dell’amicizia per me e io avevo un’immensa ammirazione per lui».
Lei ha sempre diviso. Politicamente e filosoficamente. Deleuze e Aron contro di lei. Foucault e Barthes a favore. Così da 40 anni. Lo fa apposta o è la sua natura?
«Non so. Ho scritto un libro cinque anni fa che si intitola "De la guerre en philosophie". Era il mio discorso del metodo e difendeva una concezione litigiosa del pensiero. Vale la pena di pensare - dicevo - solo se si tracciano delle linee di demarcazione. Non sono un riunificatore, è evidente. Sono uno che divide, è probabile. In effetti, penso che si avanzi dividendo».
Mitterrand ha scritto nelle sue memorie che temeva di vederla diventare vittima della moda, ma era fiducioso che alla fine si sarebbe salvato. Come si giudica lei?
«Credo che avesse visto giusto. Quando diventi celebre da molto giovane come non essere influenzati, come non essere presi da vertigine? Poi il tempo passa. Sono diventato un po’ più ragionevole».
Dalla Bosnia al Darfur, lei è stato sempre in prima fila per i diritti umani. Chi fa più danni, i vigliacchi o gli stupidi?
«Gli stupidi sono quasi peggio, più pericolosi dei vigliacchi».
In "Barbarie dal volto umano" come nel "Testamento di Dio" lei regola i suoi conti con i totalitarismi ma anche con la Grecia, coi Lumi, la Rivoluzione, l’ottimismo e l’idea stessa di progresso. Che cosa resta del pensiero occidentale?
«Tutto il resto».
Sarebbe a dire?
«La volontà di scongiurare il peggio e i mezzi per farlo».