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 2013  giugno 28 Venerdì calendario

L’ALTRA FACCIA DI MATTEO

[Graziano Delrio] –
Graziano Delrio è l’opposto speculare del suo amico Matteo Renzi. Come questi è rapido e impaziente, così il ministro degli Affari regionali è pacato, riflessivo, misurato nella scelta degli argomenti e delle parole. Sostenitore del sindaco di Firenze fin dall’inizio della sua scalata al cielo della politica nazionale, Delrio sa spargere antidoti distensivi sui momenti più conflittuali, smussare gli attriti con gli avversari di partito e vestire di politica qualche intemperanza renziana. Sindaco di Reggio Emilia da nove anni, ha resistito al richiamo di un posto in Parlamento ma non all’offerta di un ministero in continuità con la sua principale competenza e passione: l’amministrazione del territorio.
Asciutto, disinvolto, anche attraente nella palese noncuranza del proprio aspetto, ci riceve in maniche di camicia nello studio ministeriale, dove ha tutta l’aria di sentirsi a casa e dove l’iniziale diffidenza di fronte a un’intervista che sarà anche personale si scioglie lentamente nel racconto del momento politico e della sua storia di uomo.
Non posso che cominciare chiedendole quanto è colpito dalla condanna di Berlusconi.
«Abbastanza. Ma i magistrati fanno il loro lavoro, noi facciamo il nostro. Se questo inciderà sulla tenuta del governo non saremo noi a deciderlo».
Certo, per lei, che era un nemico dichiarato di qualsiasi governo di larghe intese, deve essere ancor più difficile esserne diventato un pilastro. Come si sente?
«Mi sento in uno stato di necessità, ma non mi pento di essere qui. Ho buoni rapporti con gli altri ministri, anche del Pdl, che lavorano per il bene comune. La vera sofferenza è con la politica esterna».
Dov’è la differenza?
«Aver fatto l’amministratore, mi permetta di dirlo, orienta la sensibilità più sui bisogni dei cittadini che sul sistema. Chi ha soltanto esperienza parlamentare forse fatica di meno. Ma vado avanti: questo non è il governo che volevo, è però il governo che ci deve portare fuori dall’emergenza».
Lei sa come?
«Perseguendo un grande obiettivo: far ripartire il lavoro, e quindi l’occupazione, e quindi il prodotto interno lordo, insomma la ripresa. Ma ci vogliono scelte coraggiose e più laiche».
Ne ha in mente qualcuna che non abbiamo già sentito?
«Gliene dico due. La metà dei miliardi che ogni anno spendiamo per riparare i danni dei dissesti idrogeologici, basterebbero per fare una prevenzione efficiente. In quanto al lavoro, se abbiamo il problema di mettere più soldi in tasca agli operai, mi chiedo perché non dovremmo permettere la contrattazione separata nelle aziende che producono ricchezza. È un’idea che non trova consenso a sinistra, ma se ne dovrebbe almeno discutere».
Invece si discute solo di Iva e di Imu.
«Già, e si va per slogan e strilli di agenzia. Penso comunque che troveremo una soluzione accettabile per tutti. Specie sull’I mu, che dovrà restare ai comuni tenendo fermo il principio costituzionale che chi ha di più paga di più».
A proposito di Costituzione, lei ama molto Dossetti, che ne fu un grande difensore. Come vive l’iniziativa di cambiarne l’impianto?
«Guardi, l’impianto non si tocca. Di presidenzialismo non si è mai parlato e, se accadesse, sarei il primo ad oppormi. è invece indispensabile rafforzare i poteri del premier. Come avviene per i sindaci, il presidente del Consiglio deve avere un programma, una maggioranza e impegni con gli elettori da rispettare».
È un posto pronto per il suo amico Renzi?
«Sono convinto che Renzi sia l’unico che ci può liberare dal ventennio berlusconiano. Ma ora c’è un governo che deve portare a termine il suo compito».
Certo, che a vedervi insieme, così antropologicamente diversi, sembrate inconciliabili. Cosa può unire Fonzie e Dossetti?
«Il fatto che lui non è Fonzie e io non sono Dossetti».
Ma sono figure dei vostri pantheon. Mi dica almeno che cosa l’ha attratta in lui?
«Mettiamola così: io vedo in Matteo un grande talento, una grande intelligenza e una qualità rara in politica, la sincerità. E siccome sono un uomo orgogliosamente di centro-sinistra, voglio che si sappia che Renzi può essere davvero quello che Blair è stato per la Gran Bretagna. Cioè il capo di una sinistra più libera, più amica della società, meno dirigista. Lo so che non sono in grande compagnia...».
Avrà però quella di Briatore.
«Non credo. Briatore è un uomo di destra».
Ha detto che potrebbe iscriversi al Pd.
«Se lo farà, vorrà dire che ha cambiato idea, cosa più che legittima. Ma deve essere chiaro a tutti che non ci sarà azzeramento tra destra e sinistra. Un centro-sinistra più moderno potrà rivedere il sistema di welfare, ma non potrà mai mettere in discussione la sanità pubblica o la scuola pubblica. Non ci interessa il top, per noi è importante il down. O partiamo da coloro che stanno più in basso o non siamo più sinistra».
Ci sarà pure qualcosa che non le piace nel sindaco di Firenze.
«Non mi piace quando è troppo violento nei toni e nei modi. Anche se non nego che questo Paese ha bisogno di grandi rotture».
È stato d’accordo con l’offensiva della rottamazione?
«No, non ne ho apprezzato gli eccessi, ma ho trovato giusto che ci fosse qualcuno che dicesse: “Adesso basta, smettiamola di pestare l’acqua nel mortaio. Se ci sono le regole, vanno rispettate e dopo due mandati si va a casa”».
Però i due rottamati più illustri ora lo sostengono. Non le sembra curioso?
«Se si riferisce a Veltroni, è dai tempi del Lingotto che dice le stesse cose di Renzi. Su D’Alema non ho informazioni verificate».
Lei è in politica da non molti anni, dopo una carriera da medico. Quando e perché ha fatto il grande salto?
«Quando Castagnetti mi chiese di mettere il mio nome nella lista dei Popolari per le Regionali del 2000. Era solo per riempire un buco, ma alcuni amici mi spinsero a fare una campagna elettorale vera. C’era solo un posto, lo presi io sconfiggendo il segretario regionale del partito. Sono diventato presidente della Commissione Sanità e ho lasciato la professione clinica».
Poi è stato sindaco due volte, ora ministro. Lei vince sempre, Delrio. Dove comincia davvero la sua storia?
«La mia storia comincia in una famiglia operaia, nella periferia di Reggio Emilia, quartiere povero di una città rossa. Mio padre era un muratore che aveva fatto la terza elementare e che, con il boom edilizio, divenne un piccolo imprenditore. Fu allora che entrammo nel ceto medio e in casa si cominciò a mangiare carne. Io studiavo e giocavo a pallone. Sono stato un campioncino. Ero stato selezionato per il Milan e l’Inter ma, malgrado gli incoraggiamenti di mio padre, rifiutai di lasciare Reggio».
La sua famiglia era comunista?
«Sì, e anche atea. I miei nonni sono stati sepolti con la bandiera rossa e la banda che suonava l’Internazionale. Nella mia zona i preti non venivano neanche a benedire per Pasqua».
E a lei che cosa è successo?
«A un certo punto, nell’adolescenza, ho cominciato a leggere il Vangelo, mi sono via via interessato e poi è esplosa la fede. Oggi da credente potrei dire che è stato un regalo della Provvidenza».
Ha fatto il percorso inverso di quello tipico a quell’età. Non sarà stato il suo modo di differenziarsi dalla famiglia?
«Non credo, perché mio padre non mi ha mai ostacolato, si è molto incuriosito anche perché frequentavo un parroco partigiano fortemente anticomunista».
Posso chiederle se appartiene ai neocatecumenali?
«Certo che può. Ma perché mi fa questa domanda?».
Perché il suo comportamento non è quello di un cattolico qualsiasi. Si sa che è anche un ministro dell’eucarestia, che porta la comunione ai malati in ospedale.
«È parecchio tempo che non esercito più, da quando sono diventato un uomo pubblico. Si tratta di un esercizio di carità che non significa separatezza, ma adesione radicale alle proprie scelte. Comunque no, non faccio parte di nessuna confessione religiosa. Quando ho incontrato la fede, cioè Gesù Cristo, mi sono preso tutto il resto, i vescovi, i preti, i diaconi...».
Anche il numero dei figli ha a che fare con la fede?
«Certo, nel senso dell’apertura vera e seria alla vita. Non si può neanche sospettare che non ci sia stata conoscenza dei cicli ormonali, essendo io un endocrinologo. Però va anche detto che mia moglie ed io abbiamo vissuto il nostro amore in modo molto passionale, quindi con un po’ di incoscienza giovanile».
Un matrimonio che dura a lungo con tanto di passione! Ci dia la sua ricetta.
«L’amore, prima di tutto. Ci siamo conosciuti molto giovani e non ci siamo più lasciati. Si tende a pensare che io abbia una moglie grossa, sfinita da nove gravidanze. Invece ancora oggi è una donna che se la vedi per strada dici: “Che bella signora!”. è attiva, ha sempre lavorato, prima in banca e ora a part time da un commercialista. è lei il vero fenomeno della famiglia».
Come si mantiene una tribù come la sua? Un sindaco non guadagna molto.
«Quando facevo il medico guadagnavo un po’ di più. Poi ce la siamo cavata come tutti: con un po’ di debiti, con l’aiuto dei genitori, con molta economia e mandando i figli a lavorare anche mentre studiavano. Non c’è nessuno di loro che a partire dai 16, 17 anni non abbia fatto dei lavoretti qua e là, soprattutto come baby-sitter».
In un mondo di figli unici, hanno mai sentito l’anomalia di essere così tanti?
«Veramente hanno sopportato una vera e propria discriminazione culturale. La gente li guarda con curiosità pensando: “Chissà come sono trascurati, chissà che casino che c’è in casa, nessuno li seguirà...”. Ma hanno imparato a fregarsene. Poi ormai sono tutti abbastanza grandi. Pochi giorni fa ne ho accompagnato una all’altare».
Si è sentito il “padre della sposa”, quello che non vuole mollarla, come nel celebre film?
«Non ricordo il film perché tanti figli non ti mandano più al cinema, ma è proprio così. Si resiste, si piange e poi ci si rasserena. Ho altre tre femmine, terrò in allenamento le sacche lacrimali».
Ammesso che riesca ad averne, che cosa fa nel tempo libero?
«Leggo molto, soprattutto filosofia. Ho sempre sei o sette libri aperti contemporaneamente. Hannah Arendt, Kirkegaard...».
Che cosa cerca nella filosofia che non le dà la religione?
«La fede è il rapporto con Gesù Cristo. Negli stoici, negli esistenzialisti, io trovo l’altra faccia del rapporto con l’uomo».
Un’ultima domanda, ministro. Come molti, lei ha più volte detto che la politica è una parentesi, che tornerà alla sua professione. Continua a pensarlo anche adesso che è in ascesa?
«Il mio mestiere è quello del medico e ne sono ancora innamorato. Se vogliono che resti mi devono convincere che sono davvero indispensabile. Ma, come è noto, nessuno lo è».