Roberto Di Caro, L’Espresso 28/6/2013, 28 giugno 2013
IL REGNO DI P.
Non sai bene, una sull’altra, quante vite abbia vissuto e stia vivendo, Paola Natalicchio. Ma come le vive lo capisci in fretta: dalle cronache della sua inattesa elezione a sindaco di Molfetta in Puglia il 13 giugno, da ciò che a 34 anni lei ti racconta di sé, dalla lettura di "Il regno di Op" appena pubblicato con Einaudi. Con quale tenacia, e insieme delicatezza. Che nel libro le fa dire alle amiche, dopo mesi senza vedere più nessuno, cancellate le pagine Facebook sua e di suo marito Marco e tagliati i ponti col resto del mondo: «Non sentitevi inadeguate se mi parlate delle fatiche dello svezzamento o di quanto è duro l’inserimento al nido. Non scusatevi della vostra felicità, che non è niente di diverso da ciò che io desidero per voi e i vostri i figli. Per tutti i figli». Compreso il suo, Angelo. Perché il regno di Op raccontato nel libro altro non è che il reparto di Oncologia Pediatrica: il decimo piano del Policlinico Gemelli di Roma dove Angelo è entrato quando aveva due mesi con una diagnosi di fibrosarcoma addominale, dov’è rimasto per quattro cicli di chemio fino all’intervento durato otto ore, poi tre settimane di recupero e riabilitazione e altri tre cicli di trattamento, fino al maggio dell’anno scorso, quando uscì appena compiuto un anno.
Angelo ce l’ha fatta, «anche se per un lustro continueremo a ballare sul tagadà fra tac, risonanze, attenzione al minimo segnale anomalo». E a dicembre Paola e suo marito Marco sono ritornati nella splendida Molfetta, chiese e palazzi in romanico pugliese, città di Gaetano Salvemini e dell’adolescenza di Riccardo Muti. Doveva essere solo una vacanza di Natale, su insistenza di amici Pd e Sel, è diventata l’avventura della conquista di un Comune commissariato dopo sette anni di centrodestra: pezzo da novanta il senatore Antonio Azzollini, presidente della commissione Bilancio di Palazzo Madama, proprietario di un call center che qui dà lavoro a mille persone, l’uomo che ha fatto arrivare stanziamenti per 70 milioni di euro per il nuovo porto commerciale. Mission impossible. Signora Molfetta, la sua lista civica, viene storpiata dagli avversari in "S’ignora Molfetta": cioè che ne sa di noi questa che ha sempre vissuto a Roma? E al primo turno il suo avversario Ninnì Camporeale, uomo del senatore, sfiorerà la vittoria col 47 per cento. Ma al ballottaggio, alzando la posta con una coalizione "prodiana" da Sel a Centro democratico e tre liste civiche ma niente Udc, la spunterà lei, 55 a 45. Ribaltando i pronostici, recita un distico nel suo sito, «nella città dove neanche Matteo Renzi, in campagna elettorale, pensò che valesse la pena fermarsi».
Dev’essersela legata al dito: «Ma no, è che nel suo tour parlava a Bisceglie, a 5 chilometri, l’avevo implorato in ginocchio di passare a Molfetta anche solo per un caffè. Guai a lui se non viene qui a metà luglio, quando sarà a parlare a Polignano...» Ecco, Paola Natalicchio è questo intrico di passione, determinazione, azzardo. Non lo è diventata per reazione a ciò che le è successo, è sempre stata così. «A 17 anni, terza liceo classico, un professore mi regala "Il futuro della democrazia" di Norberto Bobbio. Lo leggo, divento una sua groupie, tolgo il poster del Che e attacco il suo. Gli scrivo una lettera di tre pagine fitte sui fratelli Rosselli che s’immolarono per la causa e Benedetto Croce che predicò antifascismo senza sporcarsi le mani. Qual è il senso del socialismo liberale?, gli chiedo. Inaspettatamente, in una lettera quasi altrettanto lunga, lui mi risponde che il senso è nel nesso tra libertà e uguaglianza, com’è scritto nella Costituzione: una persona che studia, lavora e si può curare è più libera di una che non lo può fare. A questa idea mi attengo anche ora che sono sindaco».
Intanto però vuole fare la giornalista. Se ne va a Roma a studiare Scienze della Comunicazione alla Lumsa, tesi nel 2001 manco a dirlo su Bobbio e il rapporto fra intellettuali e politica. Lorella Cedroni, sua docente, la porta a Torino a conoscere il maestro. Ci tornerà varie volte e per giornate intere, lì in via Sacchi 66: per la tesi di dottorato Bobbio le lascerà consultare i suoi libri e archivi «e, adorabile, mi rivedrà il capitolo a lui dedicato». Ma vuole sempre fare la giornalista: stagista a "Leggo", collaboratrice a 35 euro a pezzo, addetta stampa al Comitato per il referendum sulla fecondazione assistita. Qui conosce Giovanna Melandri, che nel 2006 la prende come portavoce al ministero Politiche giovanili. Un anno e mezzo e lascia un decoroso stipendio sicuro per "l’Unità" di Concita De Gregorio, «amica da quando le avevo scritto dopo il suo libro "Non lavate questo sangue". Euro 20 a pezzo, è vero, ma se qualcuno mi tocca Concita lo mordo». Tuttora, senza tessere, si definisce "centrosinistra corrente Concita". Poi due giri in Rai, finché nel 2010 rimane incinta. «Figlio agognato da una vita, ma erano tempi di acrobatico precariato, c’era sempre altro da fare. Con Marco, informatico, nove anni più di me, conosciuto quando ne avevo sedici in una chat su Carmen Consoli e lui era batterista in un gruppo new wave e incontrato a Roma a 18. Stiamo insieme da allora».
La felicità di un figlio si schianta all’improvviso due mesi dopo che è nato. La disperazione. Poi la lenta scoperta che Op «non è il braccio della morte, ma una trincea dove ogni anno 1.500 bambini combattono una guerra, e dove si può guarire: grazie a dio sette su dieci ce la fanno». Apre un blog. Raccontare in presa diretta è all’inizio solo un modo per «asciugare il dolore». Ma lo leggono in centomila, le scrivono da ogni parte d’Italia, persone che ci sono passate, altre che in quell’incubo sono appena entrate. Racconta Op «senza paura e senza far paura», come «quell’angolo di mondo e di buona sanità italiana» dove tutto sembra qualcos’altro: ketchup, invece è betadine, un germicida, i guanti blu dunque dei Puffi, ma è perché «nei giorni delle chemio i nostri figli sono così avvelenati da non poter essere sfiorati nemmeno mentre gli cambiamo il pannolino». Dove alle sei di sera ti assale l’odore del popcorn e pare di stare al luna park tra le scimmie e le palme dipinte sul vetro, invece sei in un luogo in cui a volte un «bambino di cristallo si stanca di restare aggrappato a un incubo senza senso e vola via».
Il blog diventa un libro, il resto s’è detto. E ora "la nipote del pescivendolo" (come la sbeffeggiavano gli avversari scordando che è una medaglia, in un paese con 7 mila marittimi su 60 mila abitanti e tuttora 45 pescherecci) è alle prese con le nuove periferie e la zona artigianale-industriale dove neanche passa un autobus, l’inquinamento di una fabbrica di fiori, il nuovo porto: «È in costruzione su un letto di bombe scaricate in mare a fine seconda guerra mondiale, 48 mila ordigni recuperati dal 2008, altrettanti da bonificare, comprese bombe all’iprite in faccia alla spiaggia libera di Torre Gavetone che ustionano i pescatori: ma i lavori sono a metà e vanno portati a termine. Anche se non c’è alcun business plan, né è prevedibile se quell’astronave di cemento sarà utilizzabile o resterà un monumento inerte al senatore che l’ha voluto. Credo chiuderò intanto la Società porto, partecipata fantasma del Comune che non risulta produca alcunché...».