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 2013  giugno 28 Venerdì calendario

MA QUALE CACCIA AGLI EVASORI

Attilio Befera, "Artiglio" per chi gli rimprovera un supposto eccesso di severità nella gestione della macchina fiscale italiana, ha fatto un sogno. Il grande capo dell’Agenzia delle entrate e di Equitalia, il suo braccio armato per la riscossione delle tasse, vorrebbe mettere le mani su Palantir, un software di analisi dei big data messo a punto tre anni fa negli Stati Uniti, sviluppato da un fondo di investimento della Cia e oggi adottato in Italia dai Carabinieri del Ros, il Raggruppamento operativo speciale.
Del misterioso Palantir, capace di incrociare una quantità illimitata di dati, utilizzando algoritmi di ultima generazione per scoprire relazioni invisibili, si parlò quando Osama Bin Laden registrò un video davanti a uno scorcio montagnoso sul quale una manciata di minuti dopo piombò una raffica di missili, che non lo centrò in pieno solo perché nel frattempo si era spostato in tutta fretta. Se con Palantir l’allora leader di Al Qaeda ha rischiato la pelle, gli evasori fiscali italiani potrebbero continuare a dormire tra due guanciali. Non tanto perché il sistema made in Usa non ha proprio le caratteristiche adatte per la caccia ai furbetti delle dichiarazioni dei redditi, come assicura chi ha avuto modo di prendere parte a una delle riservatissime presentazioni organizzate in Italia. Quanto perché l’evasione-monstre del nostro Paese, pur essendo una delle principali cause dei conti pubblici che non tornano mai, e di una pressione fiscale effettiva ormai schizzata per i contribuenti onesti a quota 53 per cento, oggi come ieri non è quasi mai stata affrontata davvero come un’emergenza nazionale.
Befera c’entra poco e niente: è un grand commis e non va dove lo porta il cuore, ma dove gli chiede il governo di turno. Che non ha mai voglia di regalare alle forze di opposizione una formidabile quota di consenso elettorale. E, come ebbe a ricordare quel galantuomo dell’allora numero uno della Confcommercio, Sergio Billé, prima di finire agli arresti domiciliari e poi beccarsi una condanna a tre anni per corruzione, il mondo del lavoro autonomo e della piccola impresa vale qualcosa come dieci o dodici milioni di voti. Chi non ne intercetta almeno una fetta si può scordare di vincere le elezioni.

NEL BUNKER SOTTERRANEO
Palantir potrebbe rivelarsi insomma l’ennesima presa in giro. Che la (mancata) lotta all’evasione sia un problema di volontà politica e non di strumenti operativi è più di un sospetto per chiunque abbia avuto l’opportunità di visitare, all’estrema periferia di Roma, dalle parti della via Laurentina, il blindatissimo quartier generale della Sogei, la società di informatica del fisco italiano, collegata a 300 diverse banche dati (dall’anagrafe tributaria al registro navale), a loro volta alimentate da qualcosa come diecimila enti pubblici.
Nove ettari, circondati da un muro grigio di cemento armato, dove lavorano 1.900 dipendenti, la metà ingegneri, fisici, matematici e biologi, alcuni dei quali dotati del nulla osta di segretezza, una sorta di certificato rilasciato dalle autorità e necessario a chi per lavoro maneggia informazioni particolarmente sensibili. Sotto terra c’è un bunker di quattromila metri quadrati, al quale chi è autorizzato può accedere solo dopo la verifica delle impronte digitali. Dentro non si incontra anima viva. In compenso ci sono, ben allineati, 1.500 server, con una potenza di fuoco di un milione di miliardi di byte, tenuti al fresco da un sistema di tubature sotterranee che convoglia acqua a sei gradi di temperatura. Il tutto è a prova di attentato o di terremoto: un collegamento dedicato lungo cento chilometri trasferisce in tempo reale la massa di dati in un sito militarizzato che si trova poco fuori dai confini del Lazio, all’interno di una caserma della Guardia di Finanza.
Il riassunto delle informazioni di interesse fiscale di ciascun contribuente è contenuto in un sistema denominato Serpico, come il famoso poliziotto newyorkese interpretato da Al Pacino (in realtà è l’acronimo di Servizi per i contribuenti), in grado di processare 24.200 informazioni al secondo. Basta digitare un codice fiscale e salta fuori tutto ciò che riguarda la persona e anche il suo nucleo familiare: quanto dichiara di guadagnare, qual è il suo patrimonio immobiliare, le bollette delle utenze domestiche, le macchine e le motociclette che tiene in garage, le polizze assicurative, le eventuali iscrizioni a palestre e centri sportivi e le spese sopra i 3 mila euro (3.600 con l’Iva).
Non solo. Da lunedì 24 giugno ci saranno tutti i dati sui rapporti bancari e finanziari (entro il 31 ottobre aziende di credito e intermediari dovranno trasmettere quelli del 2011): saldi finali e iniziali e somma dei movimenti su conti correnti, conti di deposito, gestioni patrimoniali, fondi comuni, derivati, fondi pensione, gli estratti conto delle carte di credito e perfino gli accessi alle cassette di sicurezza. Mettendosi davanti a un computer e analizzando questi flussi di denaro gli 007 del fisco potranno compilare delle liste di contribuenti a rischio, sui quali accendere un faro. Lotta dura agli evasori, finalmente? Martedì 25 giugno, a "Porta a porta", Befera c’è andato più che con i piedi di piombo. Parlando di misura straordinaria. E addirittura auspicando un ritorno alla normalità.
In realtà, Serpico non ha neanche bisogno di essere interrogato: è lui stesso ad avvertire gli ispettori quando si imbatte in un contribuente che dichiara un reddito incompatibile con il suo tenore di vita. Insomma, un vero Grande Fratello, cui non sfugge davvero nulla. Eppure abbiamo un’evasione fiscale che nessuno sa davvero quanto sia grande, il che la dice lunga. Ma che stime come quelle del britannico Richard Murphy, inserito da "International Tax Review" nell’elenco delle cinquanta persone più influenti al mondo in materia di fisco e fondatore di Tax Justice Network, collocano intorno a quota 180 miliardi di euro l’anno.
Una cifra rispetto alla quale, secondo l’Agenzia delle entrate, nel 2011 sarebbero stati recuperati 12,7 miliardi. Già così sarebbe un po’ poco. Ma non è neanche vero. Perché 5,5 miliardi vengono da dichiarazioni presentate, ma le cui imposte non sono state poi versate. Il recupero di evasione attraverso accertamento si ferma a 7,2 miliardi e cioè al 4 per cento tondo del totale. Briciole: secondo l’Ocse, su questo fronte facciamo peggio solo di Turchia e Messico. Equitalia, si è scoperto nei giorni scorsi, dovrebbe riscuotere 545 miliardi, che in parte risalgono addirittura al Duemila. Una cifra virtuale, dato che molti dei contribuenti iscritti ai ruoli risulteranno oggi insolventi o addirittura già falliti. Una macchina fiscale faraonica, all’avanguardia tecnologica, dunque, per un risultato davvero misero.
Delle due l’una: o la visita guidata che fa apparire la sede della Sogei come il quartier generale della Nasa è una sceneggiata ben costruita, oppure quando suona il campanello d’allarme di Serpico all’Agenzia delle entrate, alla quale vengono girate tutte le segnalazioni, si tappano per bene occhi e orecchie. La storia che è montata negli ultimi mesi intorno alla revisione del cosiddetto redditometro suggerisce che sia senz’altro buona la seconda ipotesi.
Il nuovo strumento, come già il vecchio, è stato concepito per mettere a confronto entrate e uscite dei contribuenti, allo scopo di individuare quelli sospetti e dunque meritevoli di un approfondimento. Nella nuova versione nella valutazione del tenore di vita sarebbero dovute entrare, oltre alle spese certe, come per esempio l’acquisto di un’automobile, anche quelle presunte, calcolate sulla base di griglie di dati Istat tarate sulle caratteristiche del contribuente (dalla professione alla composizione del nucleo familiare, fino alla dimensione del comune di residenza). Spese stimate, dunque, attribuite salvo prova contraria.
Befera ha annunciato che il nuovo redditometro era pronto proprio nel pieno della campagna elettorale per le ultime elezioni politiche. Con ciò dimostrandosi molto ingenuo o molto furbo. Già, perché non ci voleva un veggente per immaginare che sarebbe scoppiato il finimondo. Come infatti è regolarmente successo. Monti, all’epoca premier, ha subito parlato di bomba a orologeria piazzata sotto palazzo Chigi dal suo predecessore. Silvio Berlusconi si è affannato a negare ogni paternità del nuovo strumento di indagine fiscale, dal quale lesto ha preso le distanze. Prontamente imitato dall’allora segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Per non parlare di Beppe Grillo, che ha incitato le sue folle a dare direttamente fuoco a Equitalia.
Alla fine, il nuovo redditometro è stato di fatto neutralizzato. Prima è arrivata una franchigia di 12 mila euro. Se lo scostamento tra dichiarazione e consumi è al di sotto di quella soglia, allora non se ne fa niente: mille euro tondi al mese di sospetta evasione passano in cavalleria. Poi è stata introdotta una nuova barriera: perché il redditometro possa entrare in funzione, lo scostamento tra entrate e uscite deve risultare superiore al 20 per cento (ma pare che agli ispettori sia stato chiesto di intervenire solo davanti a una forchetta ben più ampia di quella fissata ufficialmente). Quindi è stata praticamente cancellata la novità delle griglie dell’Istat per pesare presuntivamente i consumi, che entrerebbero in ballo solo in un secondo tempo dell’eventuale accertamento e alle quali il contribuente potrebbe opporsi dimostrando di avere abitudini o caratteristiche particolari (e vai a sapere se chi porta a spasso, e non per scelta, una zucca pelata potrà contestare la spesa per il barbiere). Infine, l’Agenzia delle entrate ha annunciato che il suo nuovo strumento di punta per la lotta all’evasione verrà utilizzato in non più di 35 mila casi. Una scelta più che eloquente, se si pensa che lo scorso novembre Befera aveva parlato di 4,3 milioni di nuclei familiari, in pratica uno su cinque, che vive in un modo incompatibile con quanto dichiarato al fisco. La caccia grossa punterebbe dunque su un po’ meno di un evasore per ogni cento sospettati (35.000 su 4.300.000 fa lo 0,8 per cento). Una piroetta che non è sfuggita ai magistrati contabili: «Decisioni ondivaghe e contrastanti», hanno scritto a maggio gli uomini della corte dei Conti. Anche perché l’operazione di sabotaggio al redditometro è solo l’ultimo di una serie di favori elargiti a piene mani dalla politica al popolo degli evasori (vedere il box a pagina 32)

PRIMATO EUROPEO NEL LUSSO
L’Italia non è un Paese povero, ma un povero Paese, per dirla con Charles De Gaulle. Abbiamo l’1 per cento della popolazione mondiale e il 5,7 per cento del totale della ricchezza netta planetaria. Un recente studio della Bundesbank dice che il patrimonio medio delle famiglie italiane (163.900 euro) è più del triplo di quelle tedesche (51.400). Secondo la Banca d’Italia, che ha valutato la ricchezza dei nuclei familiari a fine 2011 in 8.619 miliardi di euro, siamo nei primi 20 posti (su 200) nella graduatoria mondiale in termini di ricchezza netta pro capite. Per gli analisti del Crédit Suisse, gli italiani con oltre un milione di dollari (prima casa inclusa) sono un milione e 400 mila. L’Associazione italiana private banking conta 606 mila nuclei familiari con oltre 500 mila euro (immobili esclusi). E il mercato nazionale dei beni di lusso valeva, nel 2012, 15 miliardi. Risultando così, secondo l’Eurispes, il primo in Europa. Però l’80 per cento (il 96 al Sud) di coloro che presentano la dichiarazione Isee per l’accesso a prestazioni o servizi sociali è pronto a giurare di non avere neanche un conto corrente o un libretto di risparmio. Dev’essere proprio che i soldi li tengono sotto il materasso
Certo: una cosa è il patrimonio; un’altra il reddito. Un poveraccio può anche ereditare dalla nonna un comò stipato di sterline d’oro e diventare ricco d’improvviso. Ma non capita poi così spesso. Tra le due grandezze c’è una qualche relazione. I dati Ocse raccolti a palazzo Koch dicono che alla fine del 2011 in Italia la ricchezza nazionale media era pari a otto volte il reddito disponibile lordo delle famiglie. Strano: negli Stati Uniti, per esempio, il rapporto è 5,3. Qualcosa non torna.
E quel qualcosa è proprio l’evasione fiscale. Un fenomeno massiccio, ma dai contorni sfocati: a differenza che in Inghilterra, dove viene calcolata ogni anno fino all’ultimo penny, da noi non esistono dati ufficiali. Così, bisogna affidarsi alle elaborazioni dei centri studi. I numeri di Tax Research UK parlano chiaro. Dicono che in Italia si registra un’evasione pari al 27 per cento del gettito complessivo (e che da sola vale più di un quinto del totale europeo), mentre la Germania sta a quota 16 per cento e la Francia al 15. La Confcommercio stima il fenomeno in 154 miliardi; la Confindustria in 124,5. Difficile dire chi abbia ragione. L’unica cosa certa è che siamo a livelli tali da consentire la realizzazione di un vero e proprio miracolo come quello del 2009 (ultimo dato disponibile), quando gli italiani hanno speso 918,6 miliardi dopo averne dichiarati 783,2 (lordi, per giunta). E chissà da dove è arrivata la differenza.

IL SEGRETO DI PULCINELLA
L’analisi delle dichiarazioni per classi di reddito fotografa un Paese di morti di fame. Il 27 per cento dei 41 milioni di contribuenti dichiara niente. O talmente poco che al dunque, tra detrazioni e deduzioni, non versa al fisco un euro bucato. Tra coloro che qualcosa pagano, la pattuglia più nutrita (oltre 6,5 milioni) è quella che si colloca tra i 15 e i 20 mila euro di reddito, seguita da quella di chi ne racimola tra i 20 e i 26 mila. Nel Paese che rappresenta il sesto mercato al mondo per il consumo di champagne, solo 31.752 fortunati ammettono di riuscire a portare a casa più di 300 mila euro l’anno.
Dove si annidino, si fa per dire, gli evasori è il segreto di Pulcinella. Se si mettono a confronto le dichiarazioni dei redditi con i dati di un’indagine campionaria a partecipazione anonima (e quindi presumibilmente veritiera) della Banca d’Italia, vengono fuori tassi di evasione pari all’83,7 per cento per i proprietari di immobili, al 56,3 per i lavoratori autonomi e gli imprenditori e al 44,6 per i dipendenti o pensionati che svolgono anche un’attività privata. Il risultato è che nel 2011 il fisco, secondo un’elaborazione della Lef (l’Associazione per la legalità e l’equità fiscale), ha pesato per l’82 per cento su chi ha un impiego fisso e chi ha raggiunto l’età per starsene ai giardinetti. Nel 2012 (per il 2011) i titolari dei negozi di abbigliamento e calzature hanno dichiarato in media 6.500 euro. Cioè un terzo dei loro commessi (la dichiarazione media dei dipendenti è di 20 mila euro). E poco più della metà della soglia di povertà, fissata a 1.011 euro al mese per una famiglia di due persone.
La Guardia di Finanza quando fa i controlli potrebbe anche andare alla cieca. Nei primi dieci mesi del 2012 a Palermo ha colto in castagna l’85,95 per cento dei commercianti cui ha fatto visita, scoprendo che si guardavano bene dal rilasciare scontrini o ricevute fiscali (a livello nazionale, tra gennaio e maggio 2013, le verifiche sono andate a segno nel 33 per cento dei casi). Il fatto è che, nonostante un esercito di oltre 90 mila persone tra dipendenti dell’Agenzia e Guardia di Finanza (negli Usa sono centomila, ma il loro Pil è otto volte superiore al nostro) di controlli in Italia se ne fanno pochi. Quelli veri sono non più di 250 mila, ha scritto la Corte dei Conti: uno ogni 20 potenziali evasori. Non basta. Anche coloro che vengono stanati, se decidono di opporsi alle richieste del fisco, hanno ottime possibilità di farla franca: nel 2011 le commissioni tributarie regionali hanno dato loro ragione nel 43,4 per cento dei casi. Risultato: il tasso di riscossione di Equitalia è sceso nel 2012 all’1,94. E non ci sarebbe da sorprendersi se calasse ulteriormente, dopo che il governo di Enrico Letta ha pensato bene di spuntare ulteriormente le armi della società di riscossione (vedere il box a pagina 31)

L’ESEMPIO DELLA SVEZIA
Il 22 giugno del 2013 il professor Angelo Panebianco ha avuto un’alzata d’ingegno. E ha scritto sul "Corriere della Sera": «Per contrastare, come è doveroso fare, l’evasione fiscale, non basta, anche se è ovviamente necessario, usare gli strumenti repressivi: bisogna anche ridurre in modo cospicuo le tasse. Soltanto una riduzione della pressione fiscale, infatti, può spingere l’evasore, o il potenziale evasore, a rifare il calcolo delle proprie convenienze, a cambiare la propria valutazione dei vantaggi e dei rischi dell’evasione».
Non è così. Intanto, come annota il rapporto Eurispes 2013, «in Italia i livelli di tassazione sono sostanzialmente in linea con quelli dei più importanti Paesi industrializzati: per esempio, per un reddito di 45 mila euro l’imposizione media italiana ammonta al 29,8 per cento e quella tedesca al 30,4». E poi: pensare che la via maestra per sconfiggere l’evasione sia il ribasso delle aliquote è semplicemente sbagliato.
Basta prendersi la briga di leggere quanto scrive uno studioso come Alessandro Santoro, professore di Scienza delle finanze e Politica economica a Milano Bicocca ed ex consulente tributario del ministero delle Finanze, nel saggio "L’evasione fiscale", pubblicato dal Mulino: «Il confronto internazionale indica che Paesi dove il livello delle aliquote è da sempre più elevato del nostro sono invece caratterizzati da livelli di evasione molto più ridotti. Ad esempio, secondo i dati riportati in uno studio di qualche anno fa da Alberto Alesina e Mauro Marè, alla metà degli anni Novanta l’evasione in Norvegia o in Svezia era pari o di poco superiore al 10 per cento del Pil, un livello inferiore alla metà di quello italiano, a fronte di una pressione tributaria ben superiore». Scrive ancora Santoro: «L’evasione non sembra un fenomeno recente in Italia: sempre Alesina e Marè ricordano che gli italiani evadevano molto anche quando le aliquote, e la pressione tributaria complessiva, erano ben al di sotto della media europea». La controprova la fornisce una ricerca elaborata nel 2011 da Contribuenti.it: in Svezia il fisco si porta a casa il 56,4 per cento dei redditi dei contribuenti, ma l’evasione è ferma a quota 7,6 per cento.
Soprattutto in un Paese come l’Italia, dove la quota di lavoratori autonomi è altissima (sono il 24 per cento del totale, contro una media Ue del 13), c’è un solo modo di combattere davvero la piaga dell’evasione: il contribuente deve essere convinto che il fisco sa tutto di lui e che quindi se prova a barare sarà immediatamente scovato e ne pagherà le conseguenze. «Il problema è la percezione del fattore di rischio», conferma Murphy a "l’Espresso". I partiti la pensano in un altro modo. Come, lo ha spiegato senza troppi giri di parole Angelino Alfano, che non è un viandante ma il vice presidente del consiglio: «Noi non vogliamo inseguire gli evasori con i cani». Ecco.