Walter Barberis, La Stampa 28/6/2013, 28 giugno 2013
Avviene talvolta che piccole crepe siano all’origine del crollo di un intero edificio. Non diversamente successe con la morte di Carlo II di Spagna, che il 1° novembre 1700 lasciò questo mondo e il trono senza eredi diretti
Avviene talvolta che piccole crepe siano all’origine del crollo di un intero edificio. Non diversamente successe con la morte di Carlo II di Spagna, che il 1° novembre 1700 lasciò questo mondo e il trono senza eredi diretti. Il suo testamento designava a succedergli un nipote, per via di un intricato giro di parentele nipote anche di Luigi XIV di Francia, il Re Sole. Occorre tenere conto che negli equilibri politici dell’epoca i matrimoni avevano un’importanza fondamentale e le donne contavano proprio per il ruolo che assumevano nel gioco diplomatico. Quel funerale, tuttavia, non era destinato a essere una semplice cerimonia funebre; ma avrebbe scatenato una delle guerre di dimensione europea e intercontinentale con la quale si sarebbe inaugurato il Secolo dei Lumi. Si dà il caso che quella successione, che portò sul trono di Spagna Filippo V di Borbone, mise in allarme tutte le potenze europee che videro la prospettiva di una possibile unione tra le corone di Francia e di Spagna, cioè la formazione di una superpotenza che avrebbe alterato tutti gli equilibri fra gli Stati dell’epoca e i loro possedimenti continentali ed extraeuropei. E poi, c’era un altro pretendente al trono di Madrid: l’arciduca Carlo d’Austria, che era il figlio di Leopoldo, imperatore, e di un’altra sorella del defunto Carlo II, il quale aveva avuto due mogli, ma nessun figlio. Scherzi della sorte. In sostanza, gli interessi in gioco erano enormi e la successione di Filippo V fu contestata e combattuta sul campo con fior di eserciti che si affrontarono dal 1701 al 1713. Si formò ben presto una coalizione di Stati che si allearono contro l’intesa franco-spagnola: si trovarono affiancate l’Austria, l’Inghilterra, l’Olanda e, dal 1703, il Portogallo. Cosa teneva insieme questi Stati? È semplice. L’Austria desiderava mantenere un ruolo centrale negli equilibri europei e semmai espandere le sue zone di influenza: per non dire del fatto che aveva interessi a sostituirsi agli spagnoli su molti possedimenti, ad esempio quelli italiani del Milanese e del Napoletano, che erano territori strategici per i traffici nel cuore dell’Europa e in tutta l’area del Mediterraneo, con proiezioni in direzione dei mercati arabi e orientali. D’altra parte, Inghilterra e Olanda erano avversarie storiche della Spagna, a cui avevano conteso il dominio dei mari; a queste non stava tanto a cuore l’egemonia continentale, quanto il controllo sulle grandi rotte intercontinentali che portavano i loro navigli in Asia e nelle Indie. Per quelle rotte si erano reciprocamente fatte guerra per l’intero secolo XVII; ma ora, di fronte al pericolo di una espansione spagnola rafforzata dall’unione con la Francia, l’alleanza era d’obbligo. E poi c’erano i territori del Nord America, il Sudafrica, territori prima segnati dalla conquista olandese, poi passati di mano agli inglesi; ma il grosso dell’impero coloniale europeo era rappresentato dalle colonie sudamericane, che erano spagnole. A eccezione di quelle che erano portoghesi, come il Brasile. Ciò che spiega l’interesse del Portogallo a non essere schiacciato da un vicino già imponente come la Spagna, che minacciava di diventare egemone nel segno di una composizione dinastica con la Francia. A sua volta il Portogallo aveva una valenza strategica: dal suo suolo era ipotizzabile attaccare la Spagna. Era un alleato interessante. E i Savoia? Molte delle più recenti parentele li portavano verso la Francia, che sotto il dominio di Luigi XIV era anche un vicino forte quanto scomodo. Dunque, inizialmente, si schierarono al fianco di spagnoli e francesi. Ma cosa avevano da guadagnare? Il sogno di Vittorio Amedeo II di Savoia, come già dei suoi avi, era un’espansione verso Milano. Il Re Sole non fu sensibile a quel richiamo e garantì semplicemente un matrimonio tra la secondogenita di Vittorio Amedeo e Filippo V di Borbone. Sembrò al duca di Savoia un buon motivo per cambiar partito: ciò che fece nel 1703, accordandosi con Leopoldo d’Austria, che mise sul piatto non proprio Milano, ma intanto la Valsesia, Valenza, Alessandria, la Lomellina e, lasciò intendere più vagamente, il Vigevanasco. Quanto bastava per far brillare gli occhi al Savoia e indurlo a un passo veramente arrischiato: una guerra contro Luigi XIV di Francia. Vinsero gli alleati, Vittorio Amedeo salvò Torino e lo Stato nel 1706 per il rotto della cuffia, con il sacrificio di Pietro Micca e con il provvidenziale intervento del Principe Eugenio. Ma, insomma, quando si chiuse il conflitto, si trovò dalla parte dei vincitori. Ciò che gli valse, nel trattato di pace siglato a Utrecht nel 1713, il riconoscimento del titolo regale, i territori promessi, niente di meno che la Sicilia (scambiata alcuni anni dopo con la più modesta Sardegna) e una serie di territori minori che tuttavia definirono l’orientamento cisalpino, cioè italiano, degli Stati sabaudi. I Savoia non ottennero il Vigevanasco e dovettero rinunciare a un’illusione d’espansione in direzione della Lombardia. In compenso, le Alpi divennero di fatto la frontiera naturale dello Stato sabaudo, che acquisì al tavolo di Utrecht anche l’alta Valle di Susa, i territori di Pragelato e i feudi delle Langhe. Il che non fu senza problemi, a cominciare dalla necessità di una nuova politica nei confronti dei Valdesi: prima repressi duramente, con la benedizione dei francesi; ora protetti dalle potenze riformate dell’Olanda e dell’Inghilterra. Questi, che oggi paiono territori strategici per il futuro del Piemonte, allora erano schegge nell’immenso universo territoriale messo in gioco dalla guerra di successione spagnola. E tuttavia, quei piccoli territori e il loro governo significarono una prospezione dello Stato sabaudo verso l’Italia. Un indirizzo e uno sguardo che non sarebbero più mutati e che avrebbero costituito le premesse di un’altra storia nazionale: quella italiana.