Alessandro Barbera, La Stampa 28/6/2013, 28 giugno 2013
Ministro Giovannini, il decreto sul lavoro che avete approvato ieri si concentra nella concessione di sgravi per l’assunzione di giovani e svantaggiati al Sud
Ministro Giovannini, il decreto sul lavoro che avete approvato ieri si concentra nella concessione di sgravi per l’assunzione di giovani e svantaggiati al Sud. Non si poteva fare di più? «In teoria si potrebbe sempre fare di più, ma il provvedimento tiene conto dei vincoli di bilancio ed è finalizzato a ridurre la disoccupazione e a ridurre la perdita di capitale umano dovuta alla crisi. La disoccupazione al sud è alta, di lunga durata, e c’è un fenomeno gravissimo di povertà minorile. Basti pensare che il 12% dei giovani italiani lascia ancora la scuola prima della fine dell’obbligo, mentre gli stranieri sono il 44%. Non possiamo permettere di condannare queste persone alla marginalità o, peggio, renderle preda della criminalità». Sta dicendo che non è solo un problema di offerta di lavoro? «Anche a causa della crisi in Italia ci sono tre milioni di disoccupati e tre milioni di inattivi. Ma accanto a questo abbiamo un problema enorme di capitale umano. Investiamo poco nella scuola e nell’Università e dobbiamo dire chiaramente alle famiglie (oltre che allo Stato) che si deve investire nell’istruzione, così come che le imprese devono investire di più in formazione. Tutti gli interventi di questo decreto, compresi i tirocini e l’alternanza scuola-lavoro, vanno in una direzione: far incontrare domanda e offerta ai diversi livelli di formazione, offrire ai giovani maggiori opportunità, ridurre la disoccupazione delle persone di tutte le età. In questo modo si può aumentare l’intensità di lavoro della ripresa e sostenere quest’ultima, riducendo l’incertezza in cui si trovano tante famiglie». Gli incentivi all’assunzione aumentano l’occupazione? Alcuni economisti dicono che le imprese incassano l’incentivo al massimo stabilizzando qualche precario. «La critica in astratto è corretta. Ma questo sgravio - a differenza di quelli introdotti nel passato - obbliga l’impresa ad aumentare l’occupazione: l’imprenditore deve assumere a tempo indeterminato dall’esterno, oppure, se vuole convertire a tempo indeterminato un contratto a termine, deve comunque assumere un’altra persona a tempo determinato. Inoltre, rispetto al passato c’è la possibilità di fare controlli severi sull’uso corretto degli sgravi». Una delle critiche che le rivolgono è che il piano avrebbe dovuto affrontare con più coraggio il dualismo del mercato del lavoro italiano: da una parte i garantiti, dall’altra i non garantiti. «La riforma del mercato del lavoro dell’anno scorso puntava molto sul rafforzamento dell’apprendistato, ma ostacoli di varia natura lo hanno frenato. Inoltre, la riforma è entrata in vigore in un momento terribile per l’economia e distinguere l’effetto della crisi da quello della riforma non è facile. Non si può fare e disfare le riforme ogni anno, il sistema delle imprese ha bisogno di certezze». Qual è la vite più importante da stringere? «Il modello dell’apprendistato è uno scambio equo fra abbattimento dei costi per l’impresa e contenuti formativi per il lavoratore. Ma per farlo funzionare occorre che funzioni il sistema della formazione gestito dalle Regioni: oggi funziona bene in alcune, in altre no. Mancano standard nazionali: basti pensare ai problemi nei quali si imbattono le imprese con sedi in più regioni. Abbiamo quindi deciso che entro il 30 settembre la conferenza Stato-Regioni definisca una proposta organica per il superamento delle varie problematiche. Se così non sarà, interverrà il governo». Dunque lei crede che la riforma Fornero possa davvero funzionare? «Io credo che la riforma sia stata un passo importante, ma come tutte le leggi si possono migliorare. Per fare cambiamenti basati su dati di fatto ho costituito il comitato di monitoraggio previsto da quella riforma. Se fosse partito un anno fa, oggi saremmo un po’ più avanti. In Italia spesso cambiamo le leggi senza aver capito se hanno funzionato. In Olanda, negli Stati Uniti, esistono enti che si occupano di valutare l’impatto delle riforme». Con la legge di stabilità ci sarà lo spazio per taglio significativo del cuneo fiscale? «L’ultimo taglio importante, quello voluto dal governo Prodi, costò cinque miliardi di euro ma ebbe effetti quasi nulli sull’economia. Per ottenere risultati importanti ci vorrebbero cifre molto più alte, a meno che nel frattempo non ci sia un cambiamento nelle aspettative di famiglie e imprese. È più o meno quel che accadde con la seconda riforma fiscale del governo Berlusconi, che non ebbe l’effetto atteso perché le famiglie, preoccupate del futuro, non aumentarono i consumi. Gli sgravi possono aiutare, ma famiglie e imprese devono essere disposte a consumare e investire». Lo stesso ragionamento vale per l’Imu sulla prima casa? «L’introduzione dell’Imu è stata un’operazione devastante sul piano della comunicazione: l’anno scorso, per capire quanto pagare nell’anno i cittadini dovettero attendere molti mesi. Non c’è niente di peggio che lasciare incertezze su quel che accadrà in futuro. Ora occorre prendere una decisione, ricordandoci però anche quel che ci sta dicendo la Commissione europea: abbassate le imposte sul lavoro e sull’impresa (oggi troppo alte anche in confronto agli altri paesi), alzate quelle indirette e sul patrimonio».