Morya Longo, Il Sole 24 Ore 28/6/2013, 28 giugno 2013
HA VINTO IL MODELLO «CIPROLANDESE»
Una volta tanto il «modello tedesco», in cui è lo Stato a salvare le banche in crisi, non ha prevalso in Europa. A diventare prassi, nel nuovo meccanismo europeo per il salvataggio degli istituti di credito, sarà invece il modello «Ciprolandese»: se qualche banca dovesse affondare in futuro, a pagare per le prime perdite sarebbero i privati. Azionisti in primo luogo, poi i possessori di obbligazioni subordinate, poi gli obbligazionisti cosiddetti "senior" e infine i correntisti: saranno loro i primi a pagare, fino a una cifra pari all’8% del totale passività della banca in crisi. Più o meno come accaduto a Cipro (dove i dolori si sono fatti sentire fino ai conti correnti) e in Olanda (dove le obbligazioni subordinate della traballante Sns Bank sono state annientate). Il modello «ciprolandese», insomma, ha prevalso: prima paga il privato, poi lo Stato.
Il concetto non può che apparire condivisibile: chi compra azioni o obbligazioni di una banca sa di correre un rischio. Ed è giusto che paghi almeno una parte del conto se la banca finisce a un passo dal fallimento. Eppure i primi salvataggi di banche, avvenuti in Europa e negli Stati Uniti all’inizio della crisi finanziaria, erano stati molto diversi: a mettere mano al portafoglio erano sempre stati i contribuenti. Il maggior sacrificio chiesto agli investitori privati (per esempio in Inghilterra con il salvataggio di Northern Rock e in Germania) era consistito nella rinuncia degli interessi sulle obbligazioni subordinate. Quelle, cioè, più rischiose perché più simili al capitale. Un pizzicotto, insomma, più che un vero sacrificio: il conto vero, a quei tempi, lo hanno sempre pagato gli Stati.
Quando la tedesca Ikb è stata travolta dalla crisi, lo Stato è per esempio intervenuto tramite il suo braccio finanziario Kfw. Da allora la Germania ha impiegato 47 miliardi di euro per ricapitalizzare le proprie banche in crisi (secondo i dati di R&S Mediobanca riportati dal bollettino Consob) e ha impegnato 373 miliardi sotto forma di garanzie: soldi in gran parte già recuperati. Anche in Gran Bretagna e Stati Uniti i contribuenti hanno speso non poco per salvare le banche, nella prima fase della crisi. Il Regno Unito ha nazionalizzato Lloyds Banking Group e Royal Bank of Scotland: l’esborso totale, per le ricapitalizzazioni, è stato di 115 miliardi. Negli Usa lo Stato ha speso 562 miliardi di dollari per rimpinguare il capitale delle banche in crisi e 1.800 miliardi per garantire le loro attività: soldi in buona parte già recuperati.
In Irlanda lo sforzo delle casse pubbliche per salvare le banche è stato però così grande, che alla fine lo Stato ha dovuto chiedere aiuti all’Europa. Così, proprio a Dublino, ha iniziato a emergere un’altra idea: non è giusto che a pagare siano solo gli Stati, che sono poi costretti ad alzare le tasse. I privati devono contribuire. È stata proprio l’Irlanda ad aprire la breccia: Bank of Ireland o Allied Irish Bank hanno infatti proposto a chi possedeva obbligazioni subordinate un mini-rimborso cash oppure azioni. E non hanno lasciato scampo agli investitori: chi non avesse accettato la loro offerta, che imponeva una forte perdita, avrebbe infatti ricevuto un solo misero centesimo di euro per ogni mille euro investiti. Purtroppo questa è la sorte toccata a tanti risparmiatori italiani.
Poi è stata l’Olanda a dare un colpo ancora più duro. Quando in crisi è finita la Sns Bank, lo Stato – per salvarla – ha subito chiamato in causa i privati: tutte le obbligazioni subordinate sono state espropriate con un indennizzo pari a zero. E, quando la crisi ha toccato l’elefantiaco sistema bancario di Cipro, lo shock è stato ancora più forte: a partecipare alle perdite sono stati – per la prima volta – i conti correnti superiori ai 100mila euro. Così anche il tabù del deposito è stato infranto. Creando panico: in assenza di regole uniformi, e soprattutto certe, la sensazione era che ogni Stato potesse "inventare" qualche colpo nuovo per gli investitori privati in caso di crisi bancaria.
Per questo è nata la direttiva sulla Risoluzione bancaria: si tratta di un modo per uniformare le regole sulle crisi e per dare agli investitori la consapevolezza di quello che accadrebbe loro in caso di salvataggio bancario. La buona notizia, per l’Italia, è che se qualche banca dovesse tracollare, i depositi sarebbero ben tutelati: le obbligazioni, che verrebbero "bruciate" per prime, sono infatti sufficienti per coprire i buchi fino all’8% del totale passività. La cattiva notizia, però, è che le obbligazioni bancarie sono in gran parte in mano alle famiglie. In caso di crisi di una banca italiana, insomma, il modello «Ciprolandese» adottato dalla Direttiva andrebbe ad impoverire non poco le famiglie: non attraverso i depositi, ma tramite i bond.