Sergio Rizzo, Corriere della Sera 28/6/2013, 28 giugno 2013
Aspettiamo ora con ansia di sapere come il Tesoro intende chiudere il buco. Perché di buco si tratta
Aspettiamo ora con ansia di sapere come il Tesoro intende chiudere il buco. Perché di buco si tratta. Non serve una laurea per capire che la decisione di coprire il rinvio dell’aumento dell’Iva anticipando il pagamento delle tasse su redditi non ancora maturati causerà un problema nei conti pubblici a giugno del prossimo anno, quando i contribuenti avrebbero dovuto saldare il 100 per cento delle imposte dovute, e non invece il 110 per cento che verrà richiesto loro sette mesi prima della scadenza, a novembre. Richiesta per giunta beffarda, perché il peso di una tassa destinata a colpire chi consuma graverà indistintamente su tutti. Poco importa. È noto che insieme alla sospensione dell’Imu sulla prima casa la sterilizzazione dell’aumento dell’Iva rappresenta il prezzo da pagare alla stabilità del governo di larghe intese: un prezzo rincarato, fra l’altro, dopo la recente condanna inflitta dal Tribunale di Milano a Silvio Berlusconi. Ma qualunque opinione si possa avere sui destini dell’esecutivo, c’è da chiedersi se non ci fosse un modo più serio per pagarlo. Certo, sarebbe ingiusto caricare sulle spalle di Enrico Letta tutto il fardello delle non scelte fatte dai suoi predecessori. La Corte dei conti ha ricordato ieri che la spesa pubblica è in diminuzione, ma fra il 2001 e il 2011 è salita di 197 miliardi portando la pressione fiscale a livelli insostenibili, senza peraltro che la crescita forsennata sia riuscita ad arrestare il calo del Pil pro capite reale, franato nell’arco di quegli undici anni in Italia (unica nell’Eurozona) del 3,8 per cento. Le privatizzazioni sono paralizzate da un decennio. L’ultima, quella dell’azienda dei tabacchi, risale al 2003: era stata avviata cinque anni prima. Le cessioni del patrimonio degli enti previdenziali hanno generato grandi profitti privati senza intaccare il debito pubblico, il quale anzi continuava a salire. Nel frattempo lo Stato ha ripreso a dilagare nell’economia con la proliferazione di migliaia di società di capitali controllate dalle amministrazioni locali che hanno garantito poltrone, gettoni e stipendi a un esercito di 38 mila fra amministratori, sindaci e alti dirigenti scelti dai partiti. Incalcolabile è lo spreco di risorse, mentre ogni tentativo serio di liberalizzazione è stato sempre respinto e il costo dei servizi pubblici ha battuto ogni record continentale. I famosi prezzi standard del servizio sanitario, ricordate? Nessuno ne parla più. Così come la concentrazione degli acquisti pubblici che potrebbe far risparmiare 30 miliardi l’anno è vanificata, rimarca la Corte dei conti, dalla polverizzazione allucinante delle stazioni appaltanti: oltre 23 mila. Neppure la revisione della spesa, avviata nel 2007 da Tommaso Padoa-Schioppa e ripresa da Mario Monti nel 2012, ha dato esiti concreti. Magra consolazione, la miglior conoscenza dei mille meccanismi di uso inefficiente, quando non di sperpero, del nostro denaro. Le alternative dunque non mancavano. Bisognava però avere il coraggio (e la forza) di partire da qua, senza esitazioni. Diranno che non c’era tempo: l’Iva sarebbe balzata al 22 per cento il 1° luglio. Forse è vero. Ma siamo certi che di fronte alla prospettiva di un taglio rapido e consistente alla spesa pubblica improduttiva e di un corrispondente calo della pressione fiscale non sarebbe stato digeribile perfino un aumento temporaneo dell’Iva? Sempre meglio che tappare una falla aprendone un’altra.