Bernardo Valli, la Repubblica 28/6/2013, 28 giugno 2013
Vado a Basaksehir, più di venti chilometri a Ovest dal centro della città, sulla sponda europea, per una visita che sta tra l’esplorazione e l’indagine
Vado a Basaksehir, più di venti chilometri a Ovest dal centro della città, sulla sponda europea, per una visita che sta tra l’esplorazione e l’indagine. Sono all’ambiziosa ricerca di quel che ha provocato le manifestazioni di piazza Taksim. A malincuore mi lascio alle spalle il Bosforo, il Mar di Marmara, il Corno d’Oro, ed entro nei quartieri satelliti della metropoli di quindici milioni di abitanti. Dall’azzurro del mare al grigio del cemento; dai classici minareti di Sultanahmet agli sfacciati grattacieli del miracolo economico turco, in gara con il primato di quello cinese. Prendo l’autostrada per Edirne, l’antica Adrianopoli della Tracia orientale, e lungo il percorso vedo lo straordinario inurbamento di un paese un tempo contadino. Quasi l’ottanta cento della popolazione ha lasciato la campagna per le città. Istanbul non finisce mai. Neppure arrivato a Basaksehir ne vedo l’estrema periferia. Il primo ministro Erdogan, nostalgico dell’impero ottomano, personaggio invadente, sognatore e moralista, la vorrebbe austera e al tempo stesso ancora più grande, più nuova, alla pari o meglio delle principali capitali del mondo. Non era anch’essa una capitale quando ospitava il califfo? A Erdogan non mancano le idee: vuole un terzo aeroporto; un terzo ponte tra le due sponde del Bosforo; un tunnel sottomarino tra la riva asiatica e quella europea. Vorrebbe spendere quattrocento miliardi di dollari, più della metà del Pil, in opere da costruire prima del 2023, quando si celebrerà il centenario della Repubblica turca, fondata da Mustafa Kemal Ataturk. Le manifestazioni di piazza Taksim sono state anche una reazione, un segno di smarrimento, un capogiro, di fronte a questa valanga di progetti riversati sul Bosforo. Ma c’è qualcosa di più profondo. A mandarmi a Basaksehir, uno dei trentanove distretti della Grande Istanbul, formato da una costellazione di quartieri con un totale di almeno un milione di abitanti, è stato un sociologo dell’Università Bahcesehir. Me l’ha quasi ordinato. Non sono le sue esatte parole, ma ha detto in sostanza: se ti lasci incantare dal Bosforo, come un turista davanti al Colosseo, non capirai nulla della Turchia d’oggi; se vuoi sapere cosa è accaduto in piazza Taksim devi inoltrarti nella metropoli; attraverso il paesaggio urbano scoprirai il significato degli avvenimenti che nelle prime due settimane di giugno hanno rivelato la nuova società turca. Per lui, per il professore della Bahcesehir, quegli avvenimenti sono stati qualcosa di simile a una tentata consacrazione della democrazia ancora incerta, interrotta dalla violenza e dal sangue, ma soltanto rinviata. Il primo ministro la pensa in un altro modo, per lui sono stati un attentato alla sicurezza nazionale ordito da forze straniere, e sventato dall’eroica polizia. E così ha cercato di risvegliare la “sindrome di Sèvres”, come i turchi chiamano il complesso d’accerchiamento, di persecuzione, riferendosi al trattato che nel 1920 smembrò l’impero ottomano sconfitto. Un’esagerazione. In poco meno di vent’anni, in un’area un tempo riservata all’esercito, è stato costruito il distretto di Basaksehir, via via popolato con criteri ben precisi, al fine di garantire l’omogeneità religiosa e un’adeguata osservanza dei precetti annessi. Il tutto in una versione borghese. Insomma una città satellite fatta su misura per gli elettori dell’Akp, il partito islamo- conservatore di Erdogan, che prima di diventare primo ministro è stato sindaco di Istanbul. Basaksehir è uno dei laboratori in cui è stata concepita, realizzata la nuova classe media. Quella che le telenovela turche hanno pubblicizzato nel mondo musulmano, fino a farne un sospirato modello di Islam moderno, del Ventunesimo secolo, per le primavere arabe. Dal 1994 in poi si sono insediate in questo ampio spazio urbano famiglie in gran parte a basso e medio reddito, provenienti dai piccoli centri rurali dell’Anatolia e attirate dalla possibilità di diventare proprietarie, grazie ai crediti agevolati. E quindi candidate a una promozione sociale. Erano, lo sono ancora, i tempi gloriosi delle “tigri dell’Anatolia”, del veloce sviluppo economico che ricorda quello delle “tigri” del Sud Est asiatico. Il Pil cresceva e crescevano i redditi individuali. La mia guida, una sociologa, ha seguito la nascita e lo sviluppo di Basaksehir e la formazione della neo borghesia musulmana che la popola. Dagli abiti delle passanti capisce il loro livello di imborghesimento. Le donne non ancora del tutto liberate dall’impronta contadina nascondono i capelli con foulard multicolori, vistosi. Le più ricche preferiscono copricapo sobri: neri, grigi o marrone. Prima di annodarli sotto il mento, molte ragazze li avvolgono attorno al collo. La loro disinvoltura sarebbe riconoscibile dal modo in cui esibiscono quello che noi chiamiamo impropriamente il “velo islamico”. E comunque lo accompagnano con blue jeans. Si differenziano per l’abbigliamento assai più spigliato, le numerose hostess che abitano a Basaksehir, non distante dall’aeroporto Ataturk di Istanbul. Si distinguono anche le trecento famiglie di ufficiali in pensione, o epurati in seguito al declassamento politico dell’esercito, rimasti nella zona come relitti kemalisti (laici), in un mare musulmano. Sono eccezioni che mettono in risalto l’omogeneità della neo borghesia religiosa. All’inizio la città satellite non è stata concepita come un insieme di comunità recintate, poi sono stati però innalzati muri di protezione per i quartieri e le case individuali, sono stati moltiplicati i cancelli e assoldati schiere di guardiani per sorvegliare gli ingressi. Crescevano i redditi e si accentuava l’autosegregazione di ispirazione americana. La quale si è sviluppata insieme al sentimento di vivere in una zona sempre più residenziale, con l’implicita promozione sociale degli abitanti. Così si è affermata la consapevolezza di appartenere ormai a una classe privilegiata e, quel che più conta, di avere raggiunto o di essersi avvicinati alla vecchia borghesia laica, insediata all’estremità nord- ovest di Istanbul. Il risultato è che undici anni dopo l’avvento al potere del partito islamico-conservatore, nell’ex capitale imperiale si affiancano, sopravvivono o si sviluppano, due distinti modi di vita. I quali si imitano, si invidiano, si ghettizzano, si mischiano. Da un lato una borghesia con le radici nella repubblica laica di Ataturk, dall’altro una borghesia frutto del miracolo economico adesso gestito da un islamismo oscillante tra democrazia e autoritarismo. Benché estranei uno all’altro questi due universi si influenzano a vicenda. Nonostante le origini ben distinte cominciano a disegnarsi linee di convergenza: nel modo di pensare, nei comportamenti, nell’estetica. A Piazza Taksim la convergenza ha prevalso sulla divisione. Il polarismo non è scomparso, sopravvive, ma le diverse entità hanno trovato punti in comune. Molte ragazze di Basaksehir hanno raggiunto il centro di Istanbul per partecipare alle manifestazioni. I loro foulard islamici si distinguevano tra le capigliature scoperte. E adesso parlano della loro esperienza con emozione. Gümüs, foulard islamico e jeans, e laurea in letteratura americana, si fa attenta quando le dico che le giornate di piazza Taksim mi ricordano, per certi aspetti, il maggio ’68. Le elenco i principali mutamenti provocati dalla rivolta giovanile europea e cito anche una certa liberazione sessuale. Reagisce subito, come se avessi infranto un tabù: «No, non c’è una somiglianza tra quel ’68 e le nostre manifestazioni». Un professore universitario, Cengiz Aktar, sostiene che piazza Taksim non è stata una reazione laica all’islamismo rampante, ma una generale ripulsa dell’autoritarismo di Erdogan. La sua megalomania sul piano urbanistico e la sua intrusione nella vita intima della gente avrebbero provocato un rigetto, sia tra i laici sia tra i religiosi. Gli uni e gli altri, insieme, hanno girato le spalle a un padre invadente. Un tempo il primo ministro voleva persino che l’adulterio ritornasse ad essere considerato un reato. Fu dissuaso dalle reazioni europee. La limitazione nel consumo dell’alcol è apparsa a molti un inutile accanimento, poiché non c’è alcolismo in Turchia, e perché colpisce una vecchia tradizione militare kemalista. Negli anni ruggenti della repubblica di Ataturk un ufficiale che non beveva alcol era guardato con sospetto. Alcune idee sono state prese come violazioni della libertà individuale: quella di disciplinare l’aborto, quella di suggerire un uso più attento del taglio cesareo, quella di consigliare almeno tre figli ( o addirittura cinque). Il 6 giugno scorso viene citato come esempio. Quel giorno ricorreva una festa musulmana e i manifestanti laici, moderati o di sinistra, hanno sospeso l’uso dell’alcol per rispettare i manifestanti religiosi che avevano abbozzato una piccola moschea. Così su piazza Taksim e nell’annesso parco Gezi si è creata un’imprevista unione, avvalorata dal fatto che gli slogan ostili erano soprattutto rivolti contro Erdogan e molto di rado contro l’AKP, il suo partito. Le giovani di Basaksehir (Gümüs compresa) unitesi alla protesta erano elettrici del partito, e penso lo resteranno. Ma non lo saranno più di Erdogan. Come se la caveranno resta un’incognita.