Cesare Maffi, ItaliaOggi 28/6/2013, 28 giugno 2013
B. HA CONTRO LA LEGGE BREGANZONA
Nessuno dubita che Silvio Berlusconi abbia sempre riposto vana fiducia in interventi del capo dello Stato volti a smorzare i toni persecutori della magistratura. Similmente s’illuse che la propria uscita dalla politica diretta, esternata sotto il governo Monti, avrebbe provocato nelle procure una specie di armistizio.
Altrettanto il Cav era convinto che la partecipazione del proprio partito alla coalizione delle larghe intese avrebbe ammorbidito i giudici. Un errore dietro l’altro.
Mauro Mellini, osservatore smagato così del mondo politico come dell’universo giudiziario, ha più volte fatto riferimento al «partito dei magistrati», in acronimo Pdm, cui ha pure dedicato un disincantato volume. Un esempio quasi «storico» dell’attività del Pdm è costituito dalle leggi «breganzina» e «breganzona» (così denominate dal proponente, il diccì Uberto Breganze), approvate negli anni sessanta per favorire i magistrati nella progressione di carriera, resa automatica. Testimoniò Giulio Andreotti: «Mentre si discuteva la legge Breganze sull’automatismo delle carriere dei magistrati, in una riunione di ministri democristiani, dissi che quel sistema mi sembrava inconcepibile. Mi risposero in coro di tenere per me queste opinioni: se no quelli ci incriminano tutti gli amministratori democristiani».
Ebbene, contro il Cav si è mosso, dal lontano ’94, il partito dei magistrati. Questo Pdm non è intriso di logiche partitiche. Non gli importa nulla che B. appoggi un governo o stia all’opposizione. Non s’interessa agli ammonimenti del presidente della Repubblica. Non è legato a schemi di dipendenza dal Pd, nel senso che, se i democratici sono costretti a divenire alleati di Berlusconi, i sodali del Pdm proseguono lungo la propria strada. Basta pensare al lavorìo condotto per rinviare a giudizio prima, processare poi, condannare infine il Cav per il caso Ruby. Sono state altrettante operazioni costruite con raffinata pazienza, partendo dalle intercettazioni smisurate per arrivare alla finale intimidazione (non si saprebbe come diversamente definirla) di una trentina di testimoni.
Ammettiamo perfino che Giorgio Napolitano volesse accedere ai più o meno inconfessati auspici di Berlusconi. Ammettiamo che, in prima persona, egli avesse telefonato a qualche giudice costituzionale per indirizzarlo sul conflitto di attribuzione, risolto la scorsa settimana, per l’udienza mancata al tribunale di Milano il 1° marzo 2010. Ammettiamo che nei giorni scorsi il presidente fosse pubblicamente intervenuto con un vigoroso richiamo alla pacificazione e alla necessità che la magistratura non agisca per intorbidire le acque della politica. Il risultato, per B., sarebbe stato esattamente quello che ha patito: tutto negativo.
Il Pdm non tiene conto di richiami, pubblici o privati, del Colle. Anzi, c’è perfino da supporre che un passo del presidente della Repubblica potrebbe essere controproducente. Nel caso di Berlusconi questa eventualità non sarebbe rilevabile, perché peggio di come vanno le sue vicende giudiziarie non si potrebbe ipotizzare (chi avrebbe pensato a un aggravamento della pena rispetto alle richieste dei pm, perfino con richiesta d’incriminazione per uno stuolo di testimoni?).