VARI 28/6/2013, 28 giugno 2013
DOSSIER SULL’ACCORDO EUROPEO RELATIVO ALLE BANCHE
LA REPUBBLICA
MAURIZIO RICCI
FRA il 2008 e il 2011, per salvare o consolidare le banche i governi europei hanno complessivamente impegnato, dalle risorse pubbliche, l’equivalente di un terzo del prodotto interno lordo annuale dei paesi dell’Unione: una zavorra che ha portato al crac, o molto vicino, paesi come Irlanda e Spagna e che ha severamente condizionato il mercato dei titoli di Stato italiano o portoghese. L’unione bancaria, cioè una responsabilità collettiva e condivisa nell’affrontare crisi ed emergenze nel mondo del credito, dovrebbe servire a spezzare questo legame perverso fra banche e governi, in cui ambedue rischiano di affondare.
Se, però, l’obiettivo era rendere più vicina l’unione bancaria fra i paesi dell’Eurozona, l’accordo raggiunto nella notte di mercoledì a Bruxelles non fa abbastanza. Se, invece, l’obiettivo era, più semplicemente, evitare che, nella crisi di una banca, si scatenasse lo spettro di un assalto agli sportelli e di una fuga dei depositi per salvare i piccoli risparmi, allora l’accordo fa centro: l’impegno di salvaguardare i depositi sotto i 100 mila euro, preso, dopo qualche esitazione, a Cipro, viene formalmente e ufficialmente sancito. L’intesa di questi giorni, anche se entrerà in vigore solo nel 2018, fissa, in effetti, alcuni paletti uguali per tutti, avvicina alcuni aspetti delle diverse legislazioni e, in questo modo, disbosca, per così dire, il terreno in vista dell’unione bancaria. Contemporaneamente, però, i margini di discrezionalità garantiti ai singoli governi rischiano di renderla, in futuro, più difficile.
E’ importante che l’accordo imponga ai paesi che ancora non ne sono dotati di creare un fondo di emergenza, alimentato dalle stesse banche, a cui attingere per far fronte alle crisi dei singoli istituti.
Come è importante che si sia creata una gerarchia di chi deve portare il peso dei salvataggi. Una volta liquidati gli attivi, a perdere soldi saranno prima gli azionisti, poi i creditori ordinari, poi i creditori privilegiati (largamente risparmiati, finora, nelle crisi) e, infine, come estrema risorsa, i titolari di depositi, ma solo quelli al di sopra dei 100 mila euro. Saranno i singoli governi a
decidere se fare quest’ultimo passo. Prima, però, che si possa ricorrere al fondo di emergenza interbancario nazionale, almeno l’8 per cento delle passività dovrà essere coperto da azionisti e creditori dell’istituto. Il fondo, in ogni caso, non potrà coprire più di un altro 5 per cento delle passività, a meno che tutti i crediti non privilegiati siano stati inghiottiti. E se il buco è ancora più
grande? E’ a questo punto che interverrà il governo, con i soldi pubblici e, ancora dopo, alla fine, l’Esm, cioè il fondo europeo che dovrebbe contribuire alla ricapitalizzazione delle banche, ma che, con un tetto di interventi a 60 miliardi di euro ha margini di manovra, limitati.
In tutti questi singoli passaggi, l’accordo raggiunto a Bruxelles prevede margini di manovra per
i singoli governi che vogliano salvaguardare particolari categorie di investitori. Germania, Finlandia, Olanda avrebbero preferito un’intesa più definita e trasparente, senza troppi distinguo, ma Parigi (preoccupata delle possibile conseguenze per le piccole imprese) e Madrid (attenta invece ai piccoli investitori) hanno chiesto e ottenuto un po’ di discrezionalità. Paradossalmente, tuttavia, questa discrezionalità contro cui i tedeschi si sono battuti potrebbe tornare utile a Berlino, nella sua guerriglia di resistenza contro il passo successivo dell’unione bancaria. Di unione, infatti, non si potrà parlare fino a che non ci sarà un’autorità unica e sovranazionale con il potere di decidere quali banche chiudere e quali salvare. Un’idea che piace assai poco alle banche tedesche. E l’intesa di mercoledì rende
più difficile il cammino di un’autorità unica, alle prese con una serie di eccezioni nazionali alla tabella di interventi decisa a livello comunitario.
La discrezionalità rischia anche di rendere anche più o meno appetibile, agli occhi di un investitore o di un depositante, un paese rispetto ad un altro. Ma l’effetto più profondo sarà a livello di singole banche: agli istituti più grandi e più forti sarà più facile attrarre i grandi depositi e finanziarsi sul mercato delle obbligazioni. Un risultato, probabilmente, inevitabile, ma che rischia di indebolire le banche già deboli, prima che una vera e propria rete di sicurezza sia in funzione.
LA REPUBBLICA
ALBERTO BISINITRA il governo, che rinvia l’aumento dell’Iva con una mano mentre aumenta l’acconto Irpef con l’altra, e i processi a Berlusconi, si rischia di non prestare sufficiente attenzione agli accordi riguardanti l’unione bancaria raggiunti ieri
dall’Ecofin.
Gli accordi definiscono le procedure generali a cui gli stati nazionali, la Bce, ed eventuali altri organismi di supervisione bancaria dovranno attenersi in caso una banca stia per fallire. Una definizione di nuove procedure a questo proposito si è resa necessaria con il passaggio a livello europeo delle competenze riguardo alla supervisione e controllo delle banche. La discussione all’Ecofin, pare anche veemente, ha riguardato il grado di discrezionalità da accordarsi agli stati membri in queste procedure. La Francia, la Svezia, e anche l’Italia richiedevano maggiore flessibilità di intervento, mentre Germania e Olanda, soprattutto, erano a favore di regole prestabilite. Il compromesso raggiunto prevede un intervento automatico a copertura delle passività su azionisti, detentori di titoli e depositanti con depositi superiori a 100 mila euro (i depositi di entità inferiore sono assicurati) e in subordine un intervento discrezionale dei governi nazionali. L’intervento automatico sarebbe dell’8% e quello discrezionale del 5%.
Per quanto queste possano apparire questioni squisitamente tecniche, esse costituiscono invece uno dei blocchi fondamentali su cui reggerà o meno la tenuta del sistema finanziario dell’euro. Partiamo da due premesse generali. La prima è che un’economia di mercato come quella europea abbisogna di un sistema finanziario efficiente che allochi capitale alle imprese produttive, distribuisca il rischio tra famiglie ed imprese, produca liquidità, e così via. Al di là della retorica spiccia dell’economia di carta che distrugge l’economia reale, senza di questo il sistema economico si inceppa. Basti guardare alla situazione oggi e a quanto la mancanza di prestiti dal sistema bancario alle piccole e medie imprese stia danneggiando il nostro sistema produttivo e aggravando la recessione.
La seconda premessa è che una economia di mercato è più efficiente se più dirette sono le responsabilità finanziarie di chi prende decisioni. Questo è un precetto generale che forse è più chiaro se espresso in una sua forma alternativa: sistemi economici di mercato in cui i profitti sono privati e le perdite socializzate non sono affatto efficienti. Ebbene, questa è esattamente la situazione in cui ha operato fino ad oggi il sistema finanziario dell’Eurozona. I salvataggi delle banche in Europa dal 2008, cioè le perdite socializzate a spese dei contribuenti, sono ammontati a 1.600 miliardi di euro. E non sono serviti a granché se le banche sono – come sono – in larga parte ancora gravemente sottocapitalizzate.
Si capisce allora come un meccanismo per costringere azionisti e altri creditori a coprire eventuali passività del sistema bancario sia di per sé un grosso passo avanti. Si capisce anche come la posizione tedesca e olandese fosse da preferirsi. L’incapacità dei governi nazionali (incluso quello tedesco) ad agire nei confronti delle proprie banche secondo principi di razionalità economica è un fatto facilmente documentabile. Lo spostamento delle funzioni di vigilanza e controllo all’Europa è da intendersi proprio come un tentativo di spezzare il più possibile questo rapporto incestuoso tra banche e governi nazionali. A questo proposito, la dipendenza della governance delle banche italiane dalle Fondazioni bancarie (luogo principe di scambio tra politica ed economia) è un vulnus responsabile per larga parte dell’inefficienza del sistema bancario italiano. Ma, per una volta, il problema non è solo italiano. In Spagna le banche maggiormente in crisi sono le casse di risparmio (o le banche create dalla fusione di diverse casse di risparmio) i cui consigli di amministrazione sono controllati da politici locali. In Germania, una regolamentazione che limita l’operatività e la competizione di banche cooperative/popolari e casse di risparmio a livello territoriale è fonte di dipendenza del credito dal ciclo elettorale. Per non parlare dell’inefficienza e della crisi delle Landesbank, partecipate di casse di risparmio e del governo del Land (regione) di riferimento.
Vi è un altro problema con la flessibilità voluta e ottenuta da parte di Francia, Svezia e Italia. Essa porta incertezza (chi beneficierà di quel 5% di intervento discrezionale?) e l’incertezza è pericolosissima sui mercati finanziari che si muovono con grande velocità e sono proni a attacchi di panico inconsulti. Ciononostante io tendo a vedere il bicchiere mezzo pieno in questo accordo. Non è chiaro se l’8% di intervento automatico sarà sufficiente, ma si potrà ricalibrare. L’introduzione del principio che azionisti e creditori (fatti salvi i depositi assicurati) debbano essere i primi responsabili delle passività delle banche (come lo sono delle imprese) e il principio che anche le banche possano fallire ed essere ricapitalizzate in modo ordinato è però davvero una rivoluzione.
Perché la rivoluzione sia completata sarebbe però necessario che i paesi Ue accettassero una ulteriore fondamentale perdita di sovranità nazionale rispetto al sistema bancario, permettendo la costruzione del cosiddetto “meccanismo unico di risoluzione” che permetterebbe ad una autorità centrale europea (forse Bce?) di ordinare la ristrutturazione, la liquidazione, la ricapitalizzazione di una banca sulla base delle indicazioni della vigilanza. A questo meccanismo sono invece i tedeschi ad opporsi, con argomenti flebili e improntati alla difesa dell’anello debole del proprio sistema bancario.
LA REPUBBLICA
C’È una clausola, nell’accordo di Bruxelles sui fallimenti bancari, che da sola rivela che razza di campo minato sia diventata questa crisi. Ogni scelta ormai rischia di innescare una catena di conseguenze inattese. Il principio di fondo dell’intesa, imposto dalla Germania, è che i creditori e i depositanti di una banca fallita debbano perdere almeno parte dei propri soldi: non saranno i contribuenti europei a farsi carico di tutto attraverso il fondo salvataggi Esm. Ma il diavolo è nei dettagli. Nella gerarchia definita a Bruxelles fra i creditori esposti alle perdite, per esempio, non tutte le imprese sono uguali: in caso di
un crac bancario del tipo andato in scena a Cipro, prima saranno sforbiciati i depositi dei grandi gruppi e solo dopo quelli delle piccole aziende. La logica è impeccabile, perché i piccoli sono più vulnerabili e danno lavoro a più persone. Ma non è difficile immaginare la reazione di una multinazionale basata in un paese debole dell’area-euro, magari in Italia o in Spagna: avrà un incentivo in più a spostare i suoi conti nella banca di un paese forte, magari in Germania, per considerarli (ancora) più al sicuro. L’accordo Ue c’è ma i banchieri a Sud delle Alpi o dei Pirenei non hanno poi molto da festeggiare.