Rita Fatiguso, Il Sole 24 Ore 26/6/2013, 26 giugno 2013
I CINQUE PUNTI DEBOLI CHE MINACCIANO PECHINO
PECHINO. Dal nostro corrispondente
Sono almeno cinque i pilastri che la Cina deve scardinare per trovare un nuovo modello di crescita non più basato sulla circolazione di denaro nei vasi sanguigni del sistema, ma su misure che creino un’espansione reale dell’economia. Non sarà semplice e le scosse telluriche di questi giorni lo dimostrano. Troppa liquidità in circolo, debiti incagliati nelle amministrazioni locali causati da finanziamenti a pioggia, prestiti collaterali in scadenza, circuiti di finanziamento parallelo, grandi aziende impegnate a speculare sulle valute pur di rendere più attraenti i bilanci.
Credito due volte il Pil
Si calcola che in Cina il circolante iniettato abbia doppiato nei primi quattro mesi dell’anno il valore del Pil. I nuovi crediti concessi non sono però finiti nell’economia reale, il che ha accentuato i problemi di liquidità causati dalla stretta di questi giorni. Si calcola che a fine aprile ci fossero sul mercato più di 103.300 miliardi di yuan, 17mila miliardi di dollari, +16,1% rispetto all’anno precedente. Decisamente troppo. A marzo il livello era stato del 14,7. Ma l’obiettivo annuale era (e resta) del 13. Questo giustificherebbe in parte la frenata delle ultime settimane, ma per il futuro si impone una politica più stabile. Senza strappi violenti.
I debiti locali incagliati
A livello locale, quello in cui le autorità godono di una notevole autonomia amministrativa si vivono giornate amare. Colpa anche delle misure di stimolo a pioggia che si sono perse in mille rigagnoli. Negli ultimi tempi il problema ha assunto connotazioni drammatiche. Intere regioni hanno iniziato a finanziarsi, per evitare il default, cedendo la terra. Ma questo si è rivelato un boomerang. L’incapacita di gestire la situazione ha portato a un cronico indebitamento che spesso sta trascinando nel baratro le imprese private che, a loro volta, si sono messe a investire sulla terra. Singolare il caso di Youngor, un big del tessile di Ningbo, che ha acquistato 48 milioni di renminbi di terreni che poi non ha piu voluto perché non abbastanza remunerativi. Ma restituire questi terreni e/o sbarazzarsene è diventato praticamente impossibile. Si calcola che simili cortocircuiti siano ormai all’ordine del giorno. Trent’anni per creare un impero che sta franando perché gli ultimi dati di Youngor sono catastrofici: ha un patrimonio di 100 uffici, 400 società, 2mila outlet e un futuro oscuro dovuto al fatto di essersi trasformato in un grande gruppo immobiliare e finanziario, il gruppo Khaishi. Dal tessile, al mattone, alla finanza, fine della parabola di un’azienda modello.
Le banche fantasma
Gran parte dell’economia di zone particolarmente vivaci dal punto di vista finanziario ancora oggi non passa attraverso il sistema ufficiale del credito. Esistono catene di prestiti che si autoalimentano e che si reggono, storicamente, sulla fiducia reciproca costruita dalle relazioni amicali, le guanxi, a prova di default. Ma se, come sta succedendo in queste settimane, le reti si spezzano, allora si bussa alle porte di istituti di secondo livello che a loro volta devono trovare forme di finanziamento poco ortodosse. Il tentativo di sperimentare un’emersione del credito in queste aree ha portato a magri risultati, a vincere sono stati gli usurai.
L’ossessione del credito
I depositi in Cina sono assolutamente poco remunerativi. Accedere a un mutuo è un’impresa titanica. I terreni vengono dati a imprenditori che in aree in espansione come Chongqing li prendono chiedendo credito e li tengono lì, senza farci nulla. L’ossessione di realizzare profitti ha allontanato dall’industria reale, sempre più costosa per il lavoro e per la sicurezza ambientale. Lasciando sul campo, per tutti gli altri, prestiti non performanti e in imminente scadenza. A giorni scade una maxicedola da 1.500 miliardi di yuan, che nessuno sa come ripagare. La banca centrale l’ha detto senza farsi problemi. I crediti sono di chi li ha fatti.
La scommessa sulle monete
Lucrare sui cambi è di moda. All’uscita di Bank of China di Yabaolou, in pieno quartiere russo, stazionano loschi figuri che offrono l’euro a 7,70 yuan invece del cambio ufficiale a 8,01. Si avvicinano armati di calcolatrice e ci provano in tutti i modi. In Cina è diventato uno sport nazionale giocare sui valori delle varie divise e puntare forte. La Banca centrale ha messo il freno quando si è resa conto che a farlo erano proprio i big dell’industria statale e che anche il renminbi era finito nel mirino. L’ossessione tutta cinese di controllare nei minimi dettagli il mondo del credito e il valore della divisa nazionale è stata del tutto inutile.