Ugo Bertone, Libero 26/6/2013, 26 giugno 2013
CI SALVERÀ UNA STAMPANTE
La new economy, si sa, è nata nei garages, presto abbandonata dai vari Bill Gates, Steve Jobs e Larry Page per approdare con i primi dollari in uffici più adatti ai computer che disegnano la realtà virtuale, fatta di bit ed elettronica. Oggi, però, si torna in officina. Tra gli applausi di Wall Street che ha fiutato il nuovo, grande affare: la Stratasys, società di stampa 3D professionale con basi in Minnesota e Israele ha appena acquisito, carta contro carta, Makerbot. La transazione, a prima vista, non ha nulla di eccezionale: «solo» 403 milioni di dollari. Ma ad attrarre l’attenzione sono le caratteristiche delle due società. Sia Stratasys che Makerbot operano in un settore che sembra frutto di un libro di fantascienza: la stampa in 3D o, per essere più tecnici, la «produzione additiva» (additive manifacturing) che rovescia il modo di produrre così come si è fatto finora, dalla preistoria ai giorni nostri. Spieghiamoci con un esempio: la produzione tradizionale, che sia una statua o un aereo, arte da un blocco di materiale (marmo o titanio poco importa) da cui si tolgono le parti che non servono per ricavare oggetti o pezzi di altri oggetti.
Nell’economia 3D, invece, si realizzano oggetti completi, funzionanti a tre dimensioni a partire solo da progetti digitali sviluppati da computer, software e macchinari a strati. Non c’è, insomma, lavoro manuale al di fuori di quello della stampante: una volta che lo schizzo è stato realizzato con un software Cad il sistema legge i dati dal file, e stende o aggiunge strati successivi di liquidi, polvere, lastre di materiale od altro in modo da produrre un oggetto in tre dimensioni, che sia un bicchiere, un’automobile o quel che volete secondo un metodo che ricorda quello di un buon pasticcere: tanti strati versati uno sopra l’altro come in una torta. Senza scarti di produzione, in ambienti ridotti, magari al centro di una città. Fantascienza? Mica tanto, visti i profitti solidi di Stratasys (valore di Borsa tre miliardi) che sforna macchine ad alta precisione per aziende e amministrazioni pubbliche . «Un piccolo colosso», commenta l’edizione italiana di Wired, la Bibbia della new economy, «da 1.100 impiegati e 500 brevetti che fornisce la metà di tutte le stampanti 3D del mondo». La «preda» Makerbot , invece, ha sfornato negli ultimi quattro anni 22 mila stampanti (metà negli ultimi 9 mesi) ma comincia a soffrire l’attacco di una concorrenza sempre più agguerrita.
Già, non si tratta di un caso isolato. Nei giorni scorsi c’è stata un’altra operazione finanziaria nel settore: la 3D Systems, altro colosso del manufacturing, ha comprato l’80% della Phenix System, un’azienda francese specializzata nelle «miscele» di metalli. Gli americani, spiega The Economist, sono i più bravi a creare le miscele di materie plastiche che, versate sullo schizzo, si trasformano in oggetti. Gli europei, leader la tedesca Eos, sono i più bravi nei metalli. E non manca il contributo italiano. Quello di Massimo Banzi, ad esempio, il creatore di Arduino, un microcontrollore (costo 25 euro, ma riproducibile a casa perché lo schema è libero) che può far muovere un robot, attivare comandi vocali, pilotare un drone o suonare un’arpa con corde laser. Insomma, non è una bizzarria da scienziati più o meno pazzi, ma una rivoluzione nel modo di produrre che promette di cambiare la nostra vita. «In origine», spiega Chris Anderson, il fondatore di Wired, «ci fu la rivoluzione elettronica. Oggi gli stessi princìpi sono alla base di stampanti tridimensionali, laser da taglio, droni». «Tutto questo», spiega via email Anderson, che oggi in California si dedica a 3D Robotics, azienda che produce droni, «sta cambiando la manifattura, il motore dell’economia. Sta cambiando l’idea di fabbrica. Gli ultimi 20 anni raccontano la storia di una straordinaria esplosione di innovazione: è ora di applicarla al mondo reale». Anderson, autore di Makers, non ha dubbi che l’Italia possa essere tra i vincitori di questo ritorno al futuro: «L’Italia è l’unico Paese che può anteporre il termine design al suo nome. Il design italiano è riconosciuto da tutti, non esiste un design russo. È qualcosa che deriva da una lunga tradizione, che la tecnologia da sola non sostituisce». Insomma, diamoci da fare invece che piangere sul declino.