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 2013  giugno 27 Giovedì calendario

MICCOLI: “IL FIGLIO DEL BOSS? È UN AMICO” MA I TIFOSI L’HANNO ABBANDONATO


Ha la faccia di un uomo investito da un tir, quando esce dalla procura dopo quattro ore e mezzo di interrogatorio. «È a pezzi», dice qualcuno mentre lui fila via senza dire una parola. L’ombra di Fabrizio Miccoli, il capitano del Palermo. L’ombra dell’omone osannato e tatuato che alle partite del cuore dedicava i suoi gol ai giudici Falcone e Borsellino e in privato - chiacchierando con il figlio di un boss - chiamava «fango» il magistrato morto a Capaci. Fango, cioè feccia, merda.
Aveva convocato ottimisticamente una conferenza stampa alle 18,45, prevedendo di cavarsela in un paio d’ore, con una mossa che non è piaciuta al procuratore aggiunto Leonardo Agueci e ai due aggiunti Maurizio Bonaccorso e Francesca Mazzocco, che lo indagano per estorsione. Già, perché con Mauro Lauricella, il figlio del capomafia Antonino detto «Scintilluni», non si limitava a canticchiare in macchina parole di disprezzo contro Falcone.
A lui aveva chiesto di aiutarlo a recuperare il denaro che gli doveva il titolare di una discoteca: a modo suo, s’intende, senza eccessivo garbo. Ma nell’avviso di garanzia c’è un altro reato, quello di accesso abusivo al sistema informatico. Perché Miccoli avrebbe convinto il titolare di un centro di telefonia a intestare alcune Sim a clienti ignari per darle in uso a Lauricella proprio nel periodo in cui il padre dell’amico era ricercato.
Tutto questo hanno chiesto i magistrati al calciatore leccese, che è sotto contratto con i rosanero fino al 30 giugno e che il patron della squadra Maurizio Zamparini ha già deciso di mandare via. Maglietta chiara, jeans e scarpe da ginnastica, nascosto dietro occhiali scuri, si è presentato alle quattro del pomeriggio negli uffici della procura blindata da dieci carabinieri, assieme al suo procuratore e avvocato Francesco Caliandro. Il quale, ogni ora, informava dello slittamento della conferenza stampa i giornalisti assiepati all’hotel Excelsior, nel cuore della città. Alle otto di sera ha gettato la spugna, mentre Miccoli era ancora davanti ai magistrati: conferenza rinviata a stamattina.
Un match, certamente il match più difficile della sua carriera. I giudici a incalzarlo punto per punto, lui a rispondere a tutte le domande, non rinnegando - come ha sempre fatto - i suoi rapporti personali con il figlio del boss. «Mauro Lauricella? È solo un amico», ha ripetuto al procuratore che lo ha messo sotto torchio sulla storia dell’estorsione, senza chiedergli delle espressioni su Falcone. Per quelle la città lo ha già condannato.
Ma insieme ai cronisti, nella ressa dell’attesa in albergo, c’era anche il popolo rosanero venuto a guardare in faccia il campione finito in quel fango che evocava per il giudice-icona della lotta a Cosa Nostra. Popolo diviso a metà, tra dialoganti e assolutisti. I primi governati da un omino asciutto che è arrivato con tanto di bandiera: «Voglio sentirgli dire che non ha detto quelle cose. E se le ha dette deve chiedere scusa», raccontava con la faccia di chi vuole perdonare. Mentre erano in tanti a zittirlo: «Macché, se ne deve andare e basta».
Sembrano la maggioranza, quelli che hanno mostrato il cartellino rosso al loro ex idolo. Tanto che oggi un gruppo andrà a deporre simbolicamente una maglia del Palermo all’Albero Falcone, il ficus diventato simbolo dell’antimafia. Un’iniziativa nata da un tam tam su Facebook alla quale ha aderito il «Forum XIX Luglio», quello che organizza la fiaccolata del 19 luglio in memoria di Paolo Borsellino. «Vogliamo testimoniare - spiegano - che presidenti, calciatori e capitani passano. Quello che non passa per noi tifosi palermitani è l’attaccamento alla maglia. Ma amare quella maglia significa anche amare la nostra città e i suoi figli migliori come Falcone e Borsellino».