Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  giugno 27 Giovedì calendario

LA SOCIETÀ CHE CAMBIA E IL VERDETTO-SANATORIA


Comunque la si voglia giudicare razionalmente ed emotivamente, ci sono pochi dubbi che la doppia decisione presa ieri dalla Corte Suprema degli Stati Uniti sulle coppie omosessuali rappresenti una svolta storica. Dichiarando incostituzionale, in quanto discrimina i conviventi gay negando il principio dell’eguale protezione, il Doma, il Defense Of Marriage Act approvato dall’Amministrazione Clinton nel 1996, la massima magistratura americana ha concesso di fatto una vendemmia di diritti legali e sociali (oggi garantiti solo alle coppie etero) anche ai gay che si sono sposati negli Stati (12 al momento, più il District of Columbia) dove il matrimonio tra persone dello stesso sesso è legale. Ancora, rifiutandosi di decidere sul ricorso di due coppie omosessuali contro la Proposition 8, la legge della California che ha messo al bando il matrimonio gay, la Corte ha aperto la strada alla sua legalizzazione nello Stato più popoloso dell’Unione.
Attenzione, i giudici non hanno smantellato le leggi che proibiscono l’unione civile tra omosessuali negli altri 37 Stati, né hanno detto che esiste un diritto costituzionale a sposare una persona del medesimo sesso. Ma questo nulla toglie al significato simbolico e pratico della decisione, salutata come una importante vittoria per il movimento dei diritti dei gay. Love is love , ha twittato il presidente Barack Obama, pronto a capitalizzare politicamente uno sviluppo che dà ragione a una delle componenti più fedeli della sua coalizione elettorale.
Anche se presa sul filo del rasoio dell’inconciliabile divisione tra progressisti e conservatori, con il giudice Anthony Kennedy questa volta a dare il voto decisivo del 5-4, la sentenza appare in realtà come una sanatoria. Nel senso che gran parte del Paese, piaccia o no, è già andata molto più avanti della Corte suprema. E una decisione che ancora poco tempo fa sarebbe stata lacerante e inconcepibile per la società americana, oggi suona come una specie di ratifica di cambiamenti già avvenuti al suo interno: come ha ricordato uno dei leader della Human Rights Campaign, quando la battaglia contro la Proposition 8 venne iniziata quasi cinque anni fa erano appena tre gli Stati americani che avevano legalizzato il matrimonio gay.
Di più, viene di aggiungere: a testimonianza di quanto il tema sia in verità trasversale e controverso, il solo leader repubblicano a difenderlo era nient’altri che il vicepresidente Dick Cheney, santo patrono dell’ultra destra repubblicana, ma padre felice di una figlia lesbica. Mentre, anche questo è utile ricordare, contrario si pronunciò all’inizio il candidato Barack Obama, che pure conquistò l’America con il suo messaggio di cambiamento e di speranza. Soltanto nella campagna per la rielezione, il presidente democratico si è pienamente convertito alla causa. Mentre Bill Clinton, che nel 1996 aveva firmato la legge ieri dichiarata incostituzionale, si è pubblicamente scusato, ammettendo di aver commesso allora un grave errore.
Certo l’opposizione ai matrimoni tra persone dello stesso sesso rimane vasta e radicata nell’America profonda, ancora legata a valori tradizionali e puritani. Certo lunghe e senza esclusioni di colpi saranno le battaglie legali e politiche negli anni a venire su questo tema. Ma da qualunque posizione lo si affronti, ieri gli Stati Uniti hanno voltato pagina. Verso una difficile modernità, come sono convinti i sostenitori del matrimonio gay. O verso una società che disconosce i suoi valori fondanti, come argomentano i «social conservative». Sullo sfondo, rimane l’eterno rovello dottrinale e politico sul ruolo della Corte suprema, plasticamente riassunto nell’opinione dissenziente del leader riconosciuto degli «originalist», il giudice Antonin Scalia, secondo il quale i nove magistrati non avevano alcuna autorità a pronunciarsi sul DOMA e pronto ad accusare Kennedy e i quattro colleghi progressisti di avere «una nozione esaltata del ruolo della Corte nella società americana». Per una volta, tuttavia, anche il combattivo «Nino» Scalia, è apparso molto sulla difensiva. Forse, è un segno dello Zeitgeist .