Alberto Statera, la Repubblica 27/6/2013, 27 giugno 2013
SALOTTO BUONO
Dai diari di Carlo Azeglio Ciampi: «12 settembre: Maccanico. Ha visto Cuccia che si interessa del Corriere della Sera: Agnelli è disponibile ». Così l’allora governatore della Banca d’Italia annota nel 1984 l’agognata apertura del presidente della Fiat e del papa laico del capitalismo italiano all’intervento nella Rizzoli per salvarla dal fallimento dopo il disastro del Banco Ambrosiano e lo scandalo della P2. Un’operazione di “disinfestazione” la definì Agnelli, che a Giovanni Bazoli comunicò: «Ne parli con Cuccia, che è come parlare con me». Cadeva così definitivamente il principio secondo cui Mediobanca poteva spaziare a tutto campo nel capitalismo italico con tre sole eccezioni: alberghi, cinema e giornali. Ed era cotto a puntino quello che Cesare Merzagora aveva definito, come ha ricordato Salvatore Bragantini, “un pasticcio di allodola e cavallo”, che per mezzo secolo ha nutrito gli interessi, le inettitudini e le viltà dei capitalisti italiani in un sistema bizantino intrecciato tra banche e imprese, attraverso partecipazioni e patti medievali cucinati nel cosiddetto Salotto buono di via Filodrammatici.
Si capisce allora perché è stato definito addirittura “una rivoluzione” l’annuncio ufficiale del cambio di strategia che dovrebbe segnare la fine del “modello Cuccia”, dato venerdì scorso dall’amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel. Basta con i patti di sindacato, gli accordi di blocco, le scatole cinesi, le società marsupio, i castelli di carta costruiti per governare aziende con il minimo costo e il minimo rischio. Basta con gli interessi collusivi di un capitalismo familiare privo di nerbo, di idee e di capitali, tenuto a balia per decenni dal “cuccismo”. E – si spera – basta con la sconcezza degli amici e degli amici degli amici, come Totò Ligresti da Paternò e i suoi cari, che in pochi anni si sono spartiti tra loro una settantina di milioni a dispetto degli azionisti. O con Tronchetti Provera, candidato fallito all’eredità del principe Gianni Agnelli nella leadership morale della grande impresa italiana.
«Quale banca di sistema, se non c’è sistema?», si chiede retoricamente Nagel, che deve aver capito, forse un po’ tardivamente, come l’Italia sia un paese di individualismi più che di sistemi e che il “banchiere di sistema”, di cui Cesare Geronzi ha rivendicato per anni il presunto (da lui) stemma nobiliare, altro non è che un gestore di poteri opachi e quasi sempre inconfessabili. E che senso ha, per dire, che una banca faccia anche l’editore? Per Renato Pagliaro, egli stesso banchiere-editore come presidente di Mediobanca, è una cosa “contronatura”. C’è bisogno, per evitare il ripetersi dei disastri presenti, di chi si faccia carico delle linee strategiche e editoriali. «Se ci chiedono di restare in Rcs con una piccola partecipazione, del 2-4 per cento, possiamo farlo – ha aggiunto Nagel – ma come un’eccezione».
Se agli annunci seguiranno i fatti, oltre agli equilibri in Rcs-
Corriere della Sera, cambieranno quelli di Telecom Italia, Italmobiliare, Gemina/Atlantia, Pirelli. E di Generali, il gioiello della corona presente in venti patti di sindacato, il cui amministratore delegato Mario Greco già da tempo ha detto di voler abdicare dal ruolo di “investitore strategico”, annunciando dismissioni per 4 miliardi. A sua volta Mediobanca cederà partecipazioni per 1,5 miliardi, metà dei quali rappresentata proprio dalla partecipazione nel Leone di Trieste.
Tempo fa, solo tre società finanziarie quotate al MIB 30 non erano collegate tra loro come in un cubo di Rubik assai ostico da sistemare. Un grande incesto salottiero. Ma via via si è fatta finalmente strada la convinzione che i patti di sindacato siano perniciosi, tanto che secondo uno studio citato da Alessandro Plateroti sul Sole-24Ore l’annuncio di un accordo tra azionisti abbatte in media del 5,8 per cento i titoli della società interessata, mentre nel caso di scioglimento del patto il valore cresce del 7,8. Forse è troppo presto per dire che sta per finire l’epoca dei salotti e incede quella degli sgabuzzini. Ma certo l’appeal non è più quello di una volta, come quando nel 1979 il palazzinaro Silvio Berlusconi faceva carte false per entrare nel salotto buono attraverso le Generali e il presidente Cesare Merzagora gli rispondeva a pesci in faccia, con una lettera conservata nel suo archivio personale e pubblicata dopo la morte: «Il nostro Consiglio non ha mai desiderato avere nel suo seno costruttori. Inoltre, Lei sta diventando sempre di più anche un grosso personaggio politico ed infatti Lei ha offerto gentilmente a Randone il suo appoggio con i suoi eccellenti amici di Roma, non pensando che a noi questi rapporti non interessano e che anzi di essi facciamo volentieri a meno. (…) Siamo stati e saremo sempre molto guardinghi, non aprendo le porte a prestigiosi personaggi della finanza e dell’industria ed ancor meno del bosco e del sottobosco politico». Poi il palazzinaro che divenne bosco e non più sottobosco, assurse al salotto dei salotti di via Filodrammatici e addirittura a Palazzo Chigi. Ma la musica è cambiata: «Basta messe cantate tra pochi – va ripetendo Diego Della Valle – il mercato ha già spazzato via la logica dei patti di sindacato che sono accordi di blocco e non di sviluppo; per le persone serie è diventato imbarazzante stare nei salotti buoni». Basta, insomma, comandare in penombra investendo poco e rischiando nulla, tra abusi e interessi collusivi annodati in un grumo insano di potere. In un paese nel quale, assente l’etica protestante, «l’accumulazione della ricchezza – come diceva Guido Carli – viene interpretata non come la rivelazione, in un cimento tra eguali, della superiorità dell’ingegno, ma come sopraffazione non disgiunta da astuzia».
Chissà se la “rivoluzione” si compirà davvero. Il patto del salotto dei salotti di via Filodrammatici scade a dicembre, ma la disdetta va data quest’estate.
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